Ciò che non sapevi su Edward Manidiforbice

Il tenero e inquietante Edward Shissorshands diventa grande e soffia venticinque candeline. Il film, infatti, uscì nelle sale nel 1990, distribuito e in parte prodotto dalla Twentieth Century Fox. Il resto dei costi fu coperto dalla Tim Burton Productions, una compagnia creata appositamente per garantire la completa libertà dell’operato di Burton, presieduta dall’amica e collega Denise Di Novi.
Il film è diretto da Burton, forte del clamoroso successo commerciale e critico di Batman, e sceneggiato da Caroline Thompson. La scelta non cade a caso, infatti il romanzo d’esordio della Thompson è First Born (1983), nel quale viene illustrata la rinascita di un feto abortito. La scrittrice quindi non è nuova a lavori che danzano sul filo tra vita e morte, scienza e fantasia, uomo e Dio. Edward è il frutto dell’immaginazione infantile di Burton e alla Thompson spetta l’arduo compito di rendere con linguaggio intimo e sensibile la fragile anima del personaggio.

Pretendere un’immedesimazione da parte del pubblico in un personaggio che al posto delle mani ha un paio di forbici, sembra a primo impatto un’ambizione un po’ azzardata. Ma il segreto del successo di Burton sta nell’essersi immedesimato egli stesso per primo. Edward non è altro che una trasfigurazione dell’autore, un alter ego del Burton adolescente.

«L’idea di Edward […] in principio era solo un’immagine che mi piaceva, poi si è trovata collegata a un personaggio, qualcuno che vorrebbe toccare ma che non può, che è insieme creativo e distruttivo – il tipo di contraddizione che può dar luogo a un’ambivalenza. Credo che questa immagine, profondamente legata a un sentimento, si sia manifestata […] nell’adolescenza, perché in realtà è una cosa molto adolescenziale.
[…] Dipende, credo, dalla qualità delle relazioni con il mondo. Io, semplicemente, sentivo di non poter comunicare. Sentivo che la mia immagine, il modo nel quale venivo percepito dagli altri, erano in aperto conflitto con il mio io interiore, sentimento peraltro piuttosto comune.»

La profondità della caratterizzazione è data dall’ossimoro, che non disturba ma evidenzia, tra tenerezza ed ingenuità da una parte e mostruosità dall’altra. Chi è Edward se non l’adolescente diverso, vittima di esplosioni cutanee ed improvvisa peluria, ma ancora timido e impacciato? Ognuno di noi ha sentito un paio di forbici al posto delle mani in una nuova scuola o vicino al gruppo dei ragazzi più popolari. Ognuno di noi in un certo senso è o è stato Edward. La forza evocativa del personaggio, magistralmente interpretato da Johnny Depp, non garantisce al film di sbancare il botteghino con un bottino ricco (guadagna soltanto 56 milioni di dollari in tutto il mondo) né il successo sul red carpet (ottiene la nomination al miglior trucco ma non si porta a casa la statuetta).
Eppure il film rimane perfettamente impiantato nella memoria del grande pubblico e si identifica non solo come manifesto poetico, ma anche come specchio del regista. La contraddizione è il filo di Arianna sul quale si dipana la trama, è il canovaccio su cui si muovono personaggi e ambientazione.

Burton converte i cliché in denuncia sociale, rappresentando per stereotipi volutamente marcati la società americana degli anni 70-80-90. La falsità e la conformità tiranneggiano la massa stipata in case tutte uguali ma di colori diversi. Edward è l’elemento di rottura, il diverso che atterrisce e spaventa, ma stimola anche la curiosità morbosa, in funzione di mezzo esorcizzante. Edward è il fenomeno da baraccone inconsapevole, l’animale selvaggio fuggito dallo zoo e lasciato in balia della folla impietosa e becera.
L’ironia amara di Burton esplode nella scena clue, in cui la comunità di quartiere, prima disunita dagli odi e dalle piccole invidie, si coalizza contro il «mostro cattivo ed aberrante», capro espiatorio mandato al massacro dalla società ottusa e protetta da un’ipocrisia straniante.
La struttura è quella di una fiaba drammatica, arricchita delle architetture e degli espedienti gotici: il castello diroccato, la “creazione del mostro” e lo scontro finale tra lui e la folla.

Il perno intorno a cui ruota l’intera narrazione e la sua simbologia intrinseca è il diverso. Lo stesso diverso di cui Mary Shelley aveva fatto emblema la creatura di Frankenstein nell’omonimo romanzo ottocentesco. Burton instaura un parallelismo evidente con l’autrice, seppur con le dovute differenze: come la creatura, anche Edward subisce il trauma dell’abbandono da parte del suo creatore. Ma, mentre la creatura viene abbandonata in seguito ad un moto di terrore da parte del dottor Victor Frankenstein, quindi volutamente, Edward è un essere incompleto perché il suo creatore non è riuscito a ultimare l’opera per forze di causa maggiore, infatti è deceduto. Quindi in Edward manca quell’impeto di vendetta che invece muoverà la creatura di Frankenstein fino in cima al Monte Bianco per torturare quel padre maledetto che l’aveva condannata all’isolamento e all’infelicità. La forza empatica dell’abbandono travolge il pubblico senza distinzioni storico-sociali, dall’Ottocento al Novecento al Duemila, in quanto concetto atavico. Edward, così come la creatura, è Adamo, è Satana, seppure il suo abbandono sia edulcorato da quell’intenzionalità che fu la condanna di Victor Frankenstein.
La creatura di Frankenstein ed Edward incarnano il pregiudizio, l’esclusione, l’emarginazione.
La creatura richiede a Victor di procurargli una compagna simile a lui con la quale ritirarsi al di fuori di quella società che lo aveva rifiutato. Edward invece trova l’amore proprio lì, nel quartiere di case colorate; la sua amata è Kim Boggs (Winona Rider). In questo senso quindi, il mostro Edward viene maggiormente umanizzato rispetto alla creatura di Frankenstein. C’è un tentativo seppur fallimentare di inserimento nella società, in funzione di un messaggio ben preciso: il mostro siamo noi. A servizio di questa ipotesi è da sottolineare un altro particolare non privo di importanza: Edward ha un nome, la creatura no. Il nome permette un’identificazione, una collocazione all’interno della collettività. Il mostro di Burton è inserito nel sistema normativo della convenzione sociale in maniera più significativa rispetto alla creatura della Shelley, che vive appostata tra i boschi. È in questa sfumatura simbolica che sta lo scarto modernizzante del regista rispetto al modello.

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