Seduti accanto a Mrs. Brown

C’è un treno che porta da Richmond a Waterloo, probabilmente sosta anche prima, sicuramente si ferma in qualche stazione intermedia, ma è a Richmond che Virginia sale velocemente («I jumped into the firs carriage I came to») ed è a Waterloo che è diretta. Nella carrozza hanno già preso posto due passeggeri, un uomo sui quaranta – lo chiameremo Mr. Smith – e una signora di sessant’anni – per noi sarà Mrs. Brown.

Most novelists have the same experience. Some Brown, Smith, or Jones comes before them and says in the most seductive and charming way of the world, “Come and catch me if you can„ (pag. 3)

Sono due persone – meglio, sono due personaggi interessanti agli occhi di Virginia Woolf (che è una scrittrice conosciuta da ormai una decina d’anni) e di qualsiasi altra mente portata per la narrazione. Prendiamo Mrs. Brown, così piccola che i suoi piedini chiusi negli stivaletti puliti non toccano il pavimento della carrozza e rimangono a dondolare nel vuoto, con gli abiti ordinati e abbottonati al punto da tradire la condizione di povertà molto più di quanto avrebbero fatto se fossero stati sporchi. Ci sarebbe tanto da raccontare e da inventare su di lei, riflette Virginia nel suo saggio Mr. Bennett and Mrs. Brown.

Uno scrittore inglese, ad esempio, metterebbe in luce sin dalle prime pagine le stranezze e i vezzi, i bottoni e le rughe, i fiocchi e le verruche: la personalità di questa sconosciuta signora dominerebbe da subito il libro. Un romanziere francese, invece, sacrificherebbe questa Mrs. Brown, nella sua immanente individualità, per restituire e dipingere un’atmosfera generale della natura umana, rendendo il discorso più astratto, ma sempre proporzionato e armonioso. Se poi di Mrs. Brown si volesse occupare uno scrittore russo, questi andrebbe oltre la carne per rivelarne l’anima che solitaria si aggira per Waterloo Road ponendosi tremende domande sulla vita, che senz’altro risuonerebbero nelle nostre orecchie anche dopo che abbiamo chiuso il libro¹.

Perché un buon romanzo  ha bisogno di buoni personaggi: «The foundation of good fiction is character-creating and nothing else… Style counts; plot counts; originality of outlook counts. But none of these counts anything like so much as the convincingness of the characters. If the characters are real the novel will have a chance; if they are not, oblivion will be its portion» spiega Arnold Bennett (citato a pag. 3). Questo Mr. Bennett è un eminente rappresentante degli Edwardian writers: sua premura in quanto romanziere è rendere il personaggio il più reale possibile per i lettori. Ecco allora che Virginia, mentre sfoglia uno dei suoi libri, Hilda Lessways, si imbatte in righe e paragrafi interi di descrizioni minuziose di esterni, di edifici, di suppellettili. Sono tutti elementi che fanno parte della vita di Hilda, che la circondano e la accompagnano durante la giornata, ma che sfortunatamente non ci dicono assolutamente nulla di lei («One line of insight would have done more than all those lines of description»). A questo punto Virginia (e con lei il lettore più accorto) si è fatta un’idea di ciò che Mr. Bennett stia cercando di fare con queste pagine: vuol far sì che i lettori immaginino per lui, ci sta ipnotizzando perché crediamo che, dato che lui ha costruito una casa, deve per forza esserci una persona che ci abiti dentro. Seduto accanto a Mr. Bennett (e a qualsiasi romanziere di quel fiorente periodo, in realtà), sta infatti il lettore medio inglese, che osserva da sopra la spalla e non riesce a trattenersi, deve ricordare al povero autore quello che dovrà raccontare, anzi quello che il pubblico stesso vuol sentirsi raccontare: «Le vecchie signore hanno case, hanno genitori, hanno un reddito, hanno servitori e bottiglie di acqua calda, ma come possiamo credere che Mrs. Brown sia reale se non ci dici che nome ha la sua villa, quanto ha pagato i suoi guanti, senza tutto questo come può essere viva?»². Il pubblico in definitiva non vuole un personaggio reale, ma uno che appaia credibile.

Arnold Bennett avrebbe insomma parlato della stampa del tessuto che ricopre i sedili su cui Mrs. Brown viaggia, del colore e degli intarsi del legno di cui è fatta la carrozza in cui Mrs. Brown si è seduta, il paesaggio che scorre gentile fuori dai finestrini da cui guarda a tratti Mrs. Brown, ma mai di chi sia Mrs. Brown. «They [the Edwardian writers] have looked very powerfully, scarchingly, and sympathetically out of the window; at factories, at Utopias, even at the decoration and upholstery of the carriage; but never at her [at Mrs. Brown], never at life, never at human nature. […] There she sits in the corner of the carriage – that carriage which is travelling, not from Richmond to Waterloo, but from one age of English literature to the next, for Mrs. Brown is eternal, Mrs. Brown is human nature, Mrs. Brown changes only on the surface».

Ecco il gap che gli Edwardians non sono riusciti a superare, e contro cui battono la fronte i Georgians: dire chi sia il personaggio. In realtà, gli scrittori britannici si accorgono a vicenda delle mancanze che cercano in tutti i modi di aggirare: i primi accusano i secondi di non saper più creare characters realistici, e i secondi rinfacciano i primi di non aver mai provato a parlare veramente dei personaggi. La verità è che sembra ormai terminata la stagione dei grandi romanzieritra i quali Virginia Woolf annovera Lev Tolstoj, Thackeray, Flaubert, la Austen e Thomas Hardy:  «Tristram Shandy or Pride and Prejudice is complete in itself, it is self-contained. […] The difference [rispetto ai romanzieri contemporanei, gli Edwardians e i Georgians] perhaps is that both Sterne and Jane Austen were interested in things in themselves; in character in itself; in the book in itslef. Therefore everything was inside the book, nothing outside».

Il fatto è che nella vita, come in letteratura, c’è bisogno di convenzioni: è necessario trovare un codice e un background condivisi per poter formulare un patto che renda possibile per scrittori e lettori muoversi, venirsi incontro e comprendersi a vicenda. Tuttavia, queste convenzioni (artistiche, etiche, sociali) non sono un testimone che si passa facilmente nella staffetta letteraria: la letteratura è un particolare modo di esprimersi e quindi di esprimere con le parole la realtà, che agli albori del Novecento non è più un docile catalogo naturalista che si fa sfogliare e nominare. «They [the Edwardians] have made tools and established conventions which do their business. But those tools are not our tools, and that business is not our business. For us those conventions are ruin, those tools are death„. Virginia e tutti i Georgians stanno soffrendo, “not from decay, but from having no code of manners which writers and readers accept as a prelude to the more exciting intercourse of friendship. The literary convention of the time is so artificial, […] signs of this are everywhere apparent. Grammar is violated; syntax disintegrated».

I Georgians sono confusi nella loro certezza di non sapere più trovare le parole, il pubblico inglese tace e smette di incalzarli per sapere di che materiale sono le fibbie degli stivaletti di Mrs. Brown. Ma come riempire questo improvviso silenzio, anzi questo balbettare ingarbugliato? Se lo scrittore non è in grado di offrire una convenzione al lettore, può essere questi, in virtù del patto letterario, a fare qualcosa? E se sì, cosa? «Your [del pubblico] part is to insist that writers shall come down off their plinths and pedestals, and describe beautifully if possible, truthfully at any rate, our Mrs. Brown […] tolerate the spasmodic, the obscure, the fragmentary, the failure». Seduti accanto a Mrs. Brown forse la vedremo solo di sbieco, non riusciremo a notare il ricamo sul  cappellino né la marca delle sue pastiglie, ma è davvero questo l’unico mondo per cominciare a usare le giuste parole:

Meanwhile, let us abolish the ticking of time’s clock with one blow. Come closer.³

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