Raccontare le sfumature: The Danish girl

Il 18 febbraio uscirà in tutte le sale italiane The Danish girl, il film ispirato all’omonima biografia scritta da David Ebershoff che racconta, in un mélange  di verità e finzione, la vita di Einer Wegener, la prima transgender nella storia a  scegliere di operarsi per cambiare sesso.

Il film è rimasto allo stato embrionale per circa 15 anni, cioè finché Tom Hooper, il regista che tutti ricordiamo per il successo cinematografico del Discorso del re (vincitore di 4 premi oscar), ha accettato di girarlo con un nuovo cast.

Eddie Redmayne e Lili Eibe (quella vera).

Eddie Redmayne e Lili Eibe (quella vera).

L’attore protagonista è Eddie Redmayne, il talentuoso britannico che l’anno scorso aveva ottenuto numerosi riconoscimenti per l’interpretazione dello scienziato Stephen Hawking nella Teoria del tutto. Al suo fianco troviamo la bravissima svedese ventiseienne Alicia Vikander (nei panni di Gerda Gottlieb, la moglie di Einer/Lili), vera sorpresa del film, e Amber Heard (nella finzione Anna Larssen, amica della coppia protagonista).

Ma passiamo alla storia. Siamo a Copenaghen, anni Venti del Novecento. Il pittore paesaggista Einer Wegener è da poco sposato con Gerda Gottlieb, pittrice a sua volta (principalmente, di ritratti), e insieme vivono d’arte e d’amore.  Lui rincorre il perfetto paesaggio di Vejle, per cui ha riscosso un discreto successo di critica; lei cerca di affermarsi nell’ambiente artistico; tutti e due, bocca su bocca, sognano un figlio.

Poi, un giorno, qualcosa cambia. Gerda chiede a Einer di posare come modella, per concludere il ritratto che le è stato commissionato dall’amica Anna Larssen anche in sua assenza, ma il contatto con abiti femminili fa affiorare in Einer una percezione fino a quel momento sopìta: quella di essere una donna. Inizialmente, sembra a tutti un gioco. Anna battezza la versione femminile di Einer con il nome di Lili; Gerda incoraggia scherzosamente il marito a indossare abiti femminili, a truccarsi, a presentarsi agli amici, durante una festa, come “cugina di Einer” (nella realtà e nel libro, come sorella); Einer sorride. Si capisce poco a poco che, parafrasando Heatcliff di Cime tempestose – Lili è Einer più di quanto Einer sia se stesso. E sembra che Einer lo scopra con lo stesso graduale stupore, con la stessa sospettosa curiosità di capire dello spettatore.

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Eddie Redmayne che interpreta Lili in una scena tratta dal film.

Il dramma maggiore, l’estraneità rispetto al proprio corpo, resta sottaciuto: si muove sotto pelle, senza fare rumore, tra i pianti di Gerda, il tentativo di attaccare bottonedi un ragazzo attratto da Lili, le espressioni di solidarietà dell’amico infantile Hans, le risate di Anna. Persino la sessualità si inibisce, man mano che la femminilità di Einer affiora, a raccontare una percezione che è insieme impalpabile e innegabile, invisibile eppure impossibile da ignorare. Lili non esplode nel petto di Einer come una bomba a orologeria puntata dalla nascita, Lili è nell’aria come l’ossigeno, il profumo, gli ormoni. Perciò assistiamo alla sua emersione come a una fuga di gas, anche se a vaporizzarsi, alla fine, è Einer.  Einer che è esistito senza mai esserci davvero, Einer che deve scomparire per somigliarsi davvero.

Si tratta di un concetto complicato che il regista – intelligentemente – non prova a semplificare: non tutto è facile e, soprattutto, non tutto deve esserlo. Specialmente se parliamo di una scissione dell’io così profonda e intima, così difficile da verbalizzare e, per questo, narrabile solo attraverso le immagini.

Il contatto con la seta di una sottana, una nuvola di profumo in cui immergersi, il sapore del rossetto, la simmetria dei movimenti di Einer e della prostituta, il riflesso cangiante di uno specchio, la mano che corre sul corpo non per riconoscersi ma per reinventarsi.

Gerda Gottlieb e Alicia Vikander, che interpreta Gerda nel film.

Gerda Gottlieb e Alicia Vikander, che interpreta Gerda nel film.

Le sequenze filmiche in cui Lili si fa spazio come a irradiarsi nelle pieghe di vita di Einer sono le più delicate e poetiche, le più toccanti. Eppure l’ineffabilità del viaggio sperimentale di Einer dentro se stesso, il carattere evanescente delle due metà che lo compongono, ci avvicinano più al dramma di Gerda che a quello del protagonista.

Perché è lei che piange, grida e si dispera, l’umanissima Gerda fatta di carne e dolore, l’unica che abbia colto l’essenza di Einer/Lili e che, inamovibile, la sostiene e sorregge. È in lei che la sofferta dialettica tra l’amore per se stessi e l’amore per l’altro trova voce. È attraverso il personaggio di Gerda, più che quello di Einer/Lili, che si manifesta il carattere e l’effetto della natura e della transizione di Einer: sono le sue impressioni e le sue reazioni a misurarli, da quando baciandolo prova la sensazione di “aver baciato se stessa” a quando chiede in lacrime a Lili di riportarle indietro il marito. Con questo scambio di voci si esplicita la profondità del legame tra i due, ch’è irrinunciabile e contemporaneamente destinato alla rinuncia.

Lili e Gerda in una scena tratta dal film.

Lili e Gerda in una scena tratta dal film.

Ripensando alle parole di Gerda, non si può ignorare la buona e calibrata sceneggiatura del film firmata da Lucinda Coxon, che appare fluida – della stessa fluidità dei soggetti che si muovono sullo sfondo –, ma anche strutturalmente solida. Buona e calibrata è anche l’ambientazione del film: a fare da cornice, c’è uno sfondo estetizzante e attentamente studiato, in cui ogni cosa è al proprio posto e tutto è preciso e ordinato come in una fotografia d’artista.

Proprio questo contrasto tra l’ordine scenico e il caos intimo di Einer, tra la posata bellezza degli elementi (i costumi di Paco Delgado, l’arredamento ispirato all’Art nouveau, le sostenute musiche di Alexandre Desplat, la fotografia che rivaleggia con il paesaggio danese e poi parigino) e l’inutilità della bellezza se non ci appartiene, è uno dei pregi del film. Ma non è l’unico, perché The Danish girl è un capolavoro di incantevole finezza che entra in punta di piedi nello sguardo – e nel cuore – dello spettatore.

È un lungometraggio timido, che dura due ore senza dire molto. E non perché non abbia niente da dire, solo perché forse, più evanescenti delle nostre sensazioni e dei nostri sentimenti, ci sono le parole.

Assolutamente consigliato.

Luisa Rinaldi

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