Discorso sul Tempo, ovvero il creparsi delle nostre fondamenta tra paradosso e irrealtà

Tutti viviamo nel tempo. La scansione temporale scandisce a sua volta il ritmo del nostro pensare, del nostro vivere. L’intera società umana fonda la propria forma sul presupposto del tempo. Noi pensiamo nel tempo. A sua volta, il tempo è nel nostro pensiero, si compone in esso. Tale rapporto è quanto mai problematico, la complessità di scioglierlo estrema. Slegare tempo e pensiero, forse, è di fatto impossibile. Anche perché, come vedremo, il tempo potrebbe non esistere affatto, al di fuori della mente umana.

Vi è innanzitutto il tempo della Scienza, tuttavia la percezione del tempo da parte degli esseri umani è ben altra cosa rispetto ad un ipotetico tempo scientifico.

Il tempo è senza dubbio un concetto astratto. La prima questione si pone in seno a questa sua stessa natura: è astratto ed innato, dunque universale? O è astratto ma di origine culturale, dunque variabile? I maggiori filosofi hanno dedicato più di una riflessione alla natura del tempo, ma è di certo necessario ricordare il contributo di Immanuel Kant. Secondo il grande filosofo, il tempo è una forma a priori dell’intuizione, quella del senso interno (laddove lo spazio è quella del senso esterno). La sua grande intuizione fu dunque quella di portare il tempo all’interno della mente umana, di sganciarlo da una dimensione trascendente e considerarlo come presupposto formale dell’esperienza e della conoscenza. Eppure, i più recenti studi tendono a inquinare questa suggestiva immagine del tempo come ossatura pura del pensiero. L’antropologia culturale dimostra che non solo il tempo permea la cultura, ma in grande misura la cultura struttura l’idea del tempo, soprattutto in rapporto alla sua rappresentazione mentale, alla sua figurazione geometrica[1]. Una dignitosa trattazione di questi argomenti necessiterebbe di spazi infiniti, ma è importante farsi un’idea dell’impossibilità di giungere ad un verità assoluta circa la natura del tempo. Proprio perché esso non è assolutizzabile, ovvero slegabile dalla complessa realtà che compenetra.  In particolare, i filosofi del tempo si sono concentrati sull’estremamente complessa questione della natura relazionale o intrinseca del tempo in rapporto agli eventi della realtà, per i quali lo scorrere del tempo è percepito.

Teaching people a new way of talking about time gives them a new way of thinking about it

(Lera Boroditsky)

Credo sia saggio partire dalla percezione comune del tempo perché, se è vero che la scienza va per conto proprio nella definizione di questa istanza, è pur vero che esso è innanzitutto una presenza invalicabile nell’esistenza umana e che esso esiste primariamente nell’Uomo. Ciascuno di noi pensa e avverte il tempo come il divenire e il mutare delle cose nel mondo. Ad una riflessione appena più attenta, potremmo concettualizzare il tempo come il passaggio di un evento dall’essere futuro all’essere presente, dall’essere presente all’essere passato. Ora che dal dominio della percezione abbiamo tentato di spostarci in quello del concetto, potremmo affermare che ciascun oggetto del mondo, nel senso più ampio del termine, possiede il futuro, il presente e il passato come proprietà. La questione sembra facilmente risolvibile, ma la contraddizione e il paradosso sono dietro l’angolo: osservate come quello che è forse il concetto più determinante nell’organizzazione della nostra esistenza (e tutto sommato anche uno dei più rassicuranti…) si trasforma in un baratro di incertezza. Ognuna delle suddette proprietà è sia “monadico-intrinseca”[2], sia temporaria, ovvero relazionale. Le tre condizioni sono isolate: esse non coesistono mai e non sono in rapporto ad altri eventi, essendo impossibile che un dato della realtà sia contemporaneamente presente e passato, per esempio. Eppure esistono in rapporto l’una con l’altra, ovvero sia l’essere passato di un evento è predicabile solo in relazione al suo precedente essere presente: senza un pensiero comparativo le proprietà temporali non sarebbero definibili. Come sciogliere questo nodo? Su tale questione si sono formate due scuole di pensiero, A-theorists e B-theorists, a seconda dell’interpretazione della successione temporale come una serie A o una serie B.

Secondo i filosofi appartenenti alla prima scuola, nella serie A gli eventi si avvicendano secondo tre proprietà: passato, presente, futuro. Ciò vuol dire che gli eventi non occupano un posto fisso, ma scivolano da una proprietà all’altra. Ciascun evento è prima futuro, poi presente, poi passato. Un evento è presente perché il suo modo di esistere lo rende diverso dal passato e dal futuro. Questa impostazione porta ad alcune conseguenze, sull’accettazione delle quali gli A-theorists si sono divisi in ulteriori correnti. Secondo i più puri sostenitori di questa visione, stando così le cose solo il presente sarebbe una proprietà intrinseca, poiché applicabile alla realtà esperibile. Passato e futuro non sarebbero dunque proprietà, poiché non applicabili ad alcunché di esistente. Solo l’attimo presente esiste: prima e dopo solo convenzione. Gli A-theorists più moderati sarebbero disposti, invece, a mediare la posizione, sostenendo che passato, presente e futuro esistono negli eventi, ma solo alcuni di loro hanno la proprietà intrinseca di essere presenti (quelli, appunto, presenti nell’istante di cui si fa esperienza), gli altri avrebbero invece la proprietà relazionale di essere passati o futuri. Altri sostengono, piuttosto, che tutte e tre le proprietà siano intrinseche, ma che vengano possedute una alla volta. Posizione poco salda, a parer mio, perché sarebbe complesso dimostrare come un evento possa possedere la proprietà intrinseca di essere futuro se, di fatto, di esso è impossibile avere esperienza e se il tempo umano è innanzitutto, con Kant, un presupposto intuitivo dell’esperienza. La scienza, come detto, è altra cosa. Per gli A-theorists, comunque, la convinzione comune è che il presente esista come proprietà monadica, o che al massimo esistano tutte le proprietà, ma mai in compresenza, non contraddicendosi di fatto. La consistenza del passato e del futuro sembrerebbe vacillare.

Secondo i B-theorists il tempo è definibile come una serie B. Nella serie B il tempo non possiede proprietà, ma si configura come una serie di relazioni. Gli eventi sono sempre antecedenti a, simultanei a, successivi a. in questa visione, il tempo è una sorta di catena relazionale, priva di proprietà fisse, ma nel quale fisse sono le posizioni degli eventi rispetto agli altri. Immaginate una rotaia sulla quale corra un treno: i vagoni non si trovano mai fissi in uno stesso posto, ma conservano sempre il loro ordine reciproco. Ma quei vagoni, appunto, già esistono e già sono ordinati, non divengono nel viaggio: il mutamento e il divenire dove sono?

La trattazione di queste posizioni è stata breve, ma spero sufficiente a condurre un ragionamento d’insieme. Le conseguenze di tali teorie sono estreme e problematiche. Discende dal ragionamento dei B-theorists che non può esistere il divenire e tutte le cose del mondo esistono eternamente presenti al proprio posto: passato, presente e futuro sarebbero come fotogrammi di una realtà fissa, sulla quale il nostro occhio/vita si posa come su un carrello. Per molti A-theorists, invece, l’unica conclusione possibile è il presentismo. Solo nel presente gli eventi esistono: nel futuro ancora non esistevano, nel passato non esisteranno più.

Entrambe le teorie arrivano a negare l’inesistenza di elementi fondanti la percezione del tempo, trovandosi in contraddizione rispetto all’esperienza che di esso si fa. Così come è concepito dall’Uomo, ed è questo ciò che conta, il tempo necessita sia della serie A che della serie B.

È in questi scenari che è intervenuto il più influente filosofo del tempo nel pensiero contemporaneo: John Ellis McTaggart. Il filosofo inglese, con l’ironia tipica del suo popolo, riuscì, nel suo celebre L’irrealtà del Tempo[3], a negare l’esistenza del tempo dal punto di vista logico. Perché se il tempo dell’Uomo esiste innanzitutto come pensiero, esso non può esulare dai principi della validità dello stesso. Con semplicità, McTaggart condusse il seguente ragionamento. Il punto di partenza fu la constatazione che le due serie sono entrambe necessarie. Il tempo, così come universalmente percepito, e dunque nella sua effettiva esistenza per gli esseri umani, ha bisogno sia della serie A che della serie B. Ciò produce un paradosso insanabile persino dalla parzialità di vedute delle due scuole. Bisogna postulare che il tempo sia divenire e che il divenire sia passaggio: gli eventi dal futuro passano al presente e dal presente al passato. Queste sono le tre proprietà del tempo, nonché le modalità dell’esistere temporale delle cose; esse sono monadico-intrinseche, vale a dire che sono assolute e si negano vicendevolmente: ciò che esiste nel passato non può esistere nel presente, e così via. Eppure, ciò che definisce la presenza di una delle tre proprietà in un evento è il confronto con gli eventi presenti, gli unici esperibili e di cui si abbia certezza. Questo vuol dire che non si potrebbe definire un evento passato se non lo si confrontasse con l’essere presente di un altro evento. Vi è dunque una componente relazionale tra le proprietà, che contravviene al loro essere monadico-intrinseche. McTaggart affermò con forza l’inseparabilità delle due serie e la loro contraddittorietà. In base al più banale principio di non contraddizione ne dedusse, in definitiva, l’irrealtà del tempo.

E ora che, a rigor di logica, il tempo non esiste più nemmeno come postulato coerente del pensiero umano, che fare? Siamo soli e intrappolati in un istante che come nasce, eternamente, muore. Come impostare un’esistenza consapevole dell’impossibilità di concepire coerentemente il fondamento stesso di qualsiasi attività emotiva, progettuale, speculativa, operativa? Può esistere pensiero razionale, che si fonda innanzitutto sul discernimento, se il pensiero stesso del tempo razionale non è? Resta solo il grigiore della convenzione, la speranza escatologica, il percorso della scienza. Il quale, temo, potrebbe rivelarsi ancor più destabilizzante.

Beh, buona fortuna!

 

 


[1] Si rimanda, a tal proposito, agli studi di Lera Boroditsky, che dimostrano una differente spazializzazione del tempo tra anglofoni madrelingua, che immaginano, come il resto degli occidentali, orizzontalmente la successione temporale, e i madrelingua di cinese mandarino, che verticalizzano la linea del tempo. Lera Boroditsky, Does Language Shape Thought?: Mandarin and English Speakers’ Conceptions of Time, in “Cognitive Psychology” 43, 1-22, Stanford Univerity, 2001.

[2] Paganini, Elisa, 2005, Temporal becoming: can we do without it?, in “Philosophical writing”, n°28.

[3] McTaggart, John Ellis, L’irrealtà del Tempo (a cura di Luigi Cimmino), BUR, Milano, 2006.

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