Estratto di «Il Rimorso» di Alba de Céspedes

Oggi si rimane a tavolino quanto basta a strappare un buon successo col primo romanzo. Poi, riscosso l’assegno dell’editore, il milione del premio letterario, talvolta i milioni dei diritti per il cinema, si entra – finalmente – a far parte dei funzionari: come se la letteratura servisse soltanto a fornire i titoli indispensabili per presentarsi ad un concorso. Cioè si entra a servizio di quegli stessi capitalisti contro i quali è stato scritto il primo libro, pieno di fame e di furore. Perché questo? Perché bisogna mantenersi al livello economico raggiunto, e apprezzato, dal giorno in cui sei entrato nel mondo letterario. Altrimenti, dopo un periodo di “affettuosa solidarietà”, di “attesa”, i nuovi amici ti escludono dal loro giro, non per malanimo ma perché non puoi più frequentare i medesimi ristoranti, gli alberghi dove essi trascorrono le vacanze; perché non hai una casa simile alla loro, con quegli aggeggi, quei cibi, quei liquori, dei quali non si può fare a meno, visto che ormai tutti li hanno. Una vita non eccessivamente dispendiosa, ma che non è facile sostenere col solo lavoro di scrittore. Io non potrei, mettiamo, venire a pranzo da te se mia moglie non fosse vestita in modo adeguato e io non possedessi altro che un maglione e un paio di pantaloni lisi. Mi escludereste, nel preparare la lista degli inviti: “Viani no, non è il caso. Un’altra volta”. E l’altra volta non verrebbe mai. Forse tu insisteresti debolmente, ma tua moglie…>

[…]
< E allora > , ho proseguito, < finisce che un giorno ti decidi: vai da un amico in uno di quei begli uffici caldi, comodi, con la moquette sul pavimento, l’aria condizionata – io scriverei così bene qui dentro, pensi, lontano da casa, dalla famiglia – e gli esponi il tuo caso, pregandolo di adoperarsi in tuo favore. Dopo qualche tempo, la segretaria del capo dell’azienda ti telefona di andare subito, oggi stesso: “Da lui, personalmente” dici a tua moglie. Un bellissimo ufficio, arredato con gusto, bei mobili, bei libri, quadri moderni alle pareti (“sono aggiornati, però, questi industriali”). Lui in primo luogo si preoccupa che tu abbia tempo per scrivere; ti assicura che rispetterà i diritti del tuo ingegno – usa proprio queste parole – che quando avrai voglia di scrivere potrai rimanere a casa oppure, perché no?, chiuderti nel tuo ufficio e lavorare tranquillamente. Intanto è arrivato il caffè, il whisky. “L’essenziale è che lei continui a scrivere. In-nan-za-tut-to. Io sono lieto di venirLe incontro, caro Viani, per appianare le Sue difficoltà, darLe modo, permetterLe” – conosci l’infinita varietà di questi sinonimi, vero Direttore? – finché Lei vorrà, potrà, stimerà opportuno concederci la Sua collaborazione. Senza orario fisso, naturalmente, di mattina, di pomeriggio, a Suo piacere. Ho già dato ordine all’amministrazione di prepararLe un contrattino, e di versarLe subito un cifra che….ma sì, ma sì, la sconteremo quando Lei vorrà, crederà, giudicherà…”
Tu ringrazi, commosso di aver trovato uno che capisce, e anche un uomo di cuore, diciamolo pure. Firmi scorrendo appena il contratto, c’è bisogno di contratti con un uomo come questo che ti viene incontro, che ti paga appunto e soltanto perché sei uno scrittore? Lo abbracci nel congedarti – gli Italiani sono facili alle effusioni – senza renderti conto che, in quel preciso istante, ti congedi dalla letteratura, da te stesso, dal piacere di rimanertene in casa a scrivere, in vestaglia, in pigiama, con la barba lunga. Rientri, abbracci tua moglie e le mostri l’assegno, trionfante: “Che uomo straordinario” lei si estasia, commossa: “parlano tanto male di questi capitalisti, di questi industriali, ma, dimmi un po’, hanno mai fatto niente per te i tuoi amici di sinistra? Io lo sapevo che sarebbe capitato qualcosa, che presto avresti ripreso a scrivere, con le spalle al sicuro” e nella sua gratitudine include anche Santa Rita, Padre Pio e una cartomante famosa, la quale aveva predetto che, infallibilmente, tra tre giorni, tre settimane o tre mesi, avresti avuto uno stipendio fisso, “uno stipendio che corre anche se tu non hai idee, se t’ammali” e tu torni ad abbracciarla giacché adesso non ti guarderà più con gli occhi sbarrati come certe sere in cui, tra le sue braccia, confessavi che ci sarebbe voluto almeno un anno ancora per finire il romanzo, lavorando tutto il giorno. “Scrivere è un lavoro lungo, sapessi; ma tu lo sai, sono anni che mi segui. Sai pure che ho il sistema nervoso debole, fragile, che basta un nulla, sai tutto”, le dicevi addormentandoti al suo fianco, gualcito dall’angoscia, fiaccato da un lavoro che avanza lentamente, suscitando una certa diffidenza tra i tuoi amici. (“Come, non è ancora finito? Quante pagine ti mancano?”)
Tua moglie sapeva tutto ma stava sveglia mentre tu dormivi perché sapeva anche che, al mattino, sarebbe venuto quel tale fornitore che minacciava una scenata. Adesso potrà dirgli “venga a riscuotere alla fine del mese”, con l’aria di chi ha danaro in tasca. Inoltre l’ufficio richiede davvero poco tempo benché, dapprincipio, i funzionari di un’azienda, anche quelli di un’azienda editoriale, diffidino di un letterato e tu vuoi dimostrare che non lei lì per favore, che un letterato è capace di cose ben più difficili di quelle che si fanno in un ufficio: perciò arrivi in orario, ricevi gente, parti, viaggi, sempre vestito di blu, anche in smoking quando è necessario, vai per la prima volta all’estero, il passaporto, l’aereo, i grandi alberghi, le donne che incontri e che inviti in quei ritrovi costosi che sono una cornice necessaria (“indispensabile, purtroppo”, pensi). Impari a conoscere i buoni indirizzi, i cibi raffinati, non tremi più di fronte alla lista dei vini. Sei attivo, euforico, ringiovanito, non hai più bisogno di simpamina per lavorare. Il primo anno hai anche pubblicato una raccolta di racconti (vecchi, ma riveduti) e la critica è stata particolarmente lusinghiera […]
Ma da quando hai preso la direzione di quella collana o di quel programma (c’è sempre più da fare in ufficio, rientri sfinito, e pranzi e cocktails e viaggi) la letteratura per te, rischia di diventare un hobby. Scrivi d’estate, al mare: nelle poche settimane in cui potresti alzarti tardi, non appena sveglio ti metti a scrivere tra la radio della stanza contigua,  i prendisole di tua moglie, le pinne e le maschere dei ragazzi. Gli altri escono, vanno alla spiaggia: “Tu rimani chiuso qui dentro, povero caro” sospira tua moglie che, ormai, ha adottato il linguaggio delle signore borghesi che frequenta. Non è più quella ragazza che aveva voluto conoscerti, in una festa per un premio letterario, che ti aveva chiesto la firma sul tuo primo romanzo, letto e riletto, segnato in margine; e che poi, nei caffè, nelle pizzerie, ti diceva fervidamente, guardandoti negli occhi: “Tu dovrai soltanto scrivere, a qualsiasi costo, anche a costo di fare la fame”. Non è più la giovane sposa che, invece del rossetto per le labbra, comprava carta e nastro da macchina. Adesso è la moglie di un funzionario: si serve dalle buone sarte, serena, potetta dall’assicurazione sulla tua vita cui ha provveduto l’azienda. Una signora che, ormai, non riceve gente come voi eravate. “Vestiti così, così impacciati” dice “si troverebbero male, non è il caso”. Tuttavia, lasciandoti solo in albergo, la sua voce si vena di rimprovero: “Lavora caro, tutti mi domandano perché non scrivi più, ora puoi lavorare tranquillo per un mese, non hai scuse, capito?”. Tu però hai la mente vuota: vai alla finestra, guardi le vele che si dondolano sul mare, pigramente, i sandolini nei quali uomini abbronzati portano ragazze che ridono, e vorresti uscire anche tu, funzionario che ha diritto alle sue vacanze, perché lavora otto il giorno, come il contabile, come l’usciere. E quando ti metti a tavolino, pieno di rabbia, invece del romanzo scrivi un articolo contro l’economia capitalistica, la società industriale, e il tuo datore di lavoro – un uomo spregiudicato, moderno – te lo lascia pubblicare, anzi ti dice “Bravo” e anche agli altri dice: “Bravissimo quel nostro funzionario, quel Viani. Coraggioso. Mi piace che scriva ciò che pensa, nella mia azienda tutti possono dire ciò che pensano”. Ma tu, nonostante quell’articolo, sai di non essere fedele alle tue idee e questo tarlo ti rode, ti avvelena, anche se il tuo datore di lavoro ti lascia frequentare gente che appartiene a partiti da lui considerati “perturbatori” poiché sa bene che i “perturbatori” diffidano di te; ti lascia discorrere al caffè, in trattoria; ti permette di firmare manifesti, di impegnarti: tanto l’unica firma che conti è sul vostro contratto, l’unico impegno cui adempi, è quello di sederti ogni mattina a un tavolo ingombro di manoscritti da leggere oppure di pratiche inerenti ai problemi che devi risolvere, ai dati che devi diffondere, per rafforzare la sua azienda. E, se esageri, un bel giorno suona il campanello e ti chiama e ti ricorda che “Lei, caro Viani, è in-nan-zi-tut-to un nostro funzionario…”. Tu non potresti ma, tornando a casa, urli che vuoi piantarlo e andartene in una baracca delle borgate, magari, dovunque sia, a scrivere i tuoi libri. Tua moglie impallidisce: “Sei pazzo? Proprio adesso che abbiamo mandato il maschio a studiare in Inghilterra, che la femmina si sposa? Le nozze, il corredo…Come faremmo? Scriverai dopo, sei ancora giovane, hai tanto tempo” ti dice, dolce, rassicurante. Così man mano, il libro che sognavi di scrivere si allontana nel tempo e anche nelle tue aspirazioni: la passione delle lettere, il piacere di stare a tavolino, sono stati sostituiti dalla passione del potere, dal prestigio sociale che credi di possedere perché sei uno scrittore e che, in certo modo, possiedi – come Carloni, di cui si cita sempre quel famoso saggio sull’Horderlin – ma è un cadavere sotto vetro: se tenti di esumarlo, si polverizza, svanisce. I sorrisi, gli inviti, la premura con la quale tutti ti riconoscono, ti riveriscono, la simpatia dei giovani, il loro accento deferente, non sono rivolti a te, ma al capo dell’azienda che tu vedi tutti i giorni e che loro non riescono a vedere sebbene abbiano un romanzo già finito, sebbene la loro ragazza voglia tradurre qualcosa; e anche i tuoi coetanei pensano che Viani, non si sa mai, bisogna tenerselo buono, nel caso di una grana col proprio editore. Insomma, hai barattato il potere intellettuale e morale dello scrittore contro il potere sociale e mondano di coloro che offrono ad altri la possibilità di scrivere. >

Ridevo, di un riso nervoso, isterico: < E arriva magari il giorno in cui tua moglie ti dice di aver saputo da fonte sicura che vogliono portarti deputato; infine te lo annunzia il tuo datore di lavoro, è cosa fatta, dice, tu ti schermisci: “No, no, ci mancherebbe altro, io devo scrivere; e poi, come farei con l’azienda?”, ma lui promette che ti verrà incontro, che gli interessi dell’azienda di fronte a quelli del Paese non contano, che in un momento come questo – è sempre “un momento come questo” – ognuno deve assumere le proprie responsabilità, sostenendo un partito progressista sì, ma moderato: “Lei sa che io Le ho sempre lasciato la più completa libertà. Le confesserò che anch’io sono un uomo di sinistra e non esiterei a scendere in piazza, però non è ancora il caso, non siamo ancora maturi” – non siamo mai maturi, hai notato, Direttore?, né per la libertà né per la repubblica né per il suffragio universale, nemmeno per la chiusura dei bordelli – “e Lei ha il dovere di sacrificare certe sue idee ancora inattuabili, di procrastinare finanche il suo lavoro personale, giacché, oggi, Lei è necessario alla nazione”, dichiara, ma non ti dice che è stato lui a combinare tutto, suggerendo a chi di dovere: “Ci vorrebbe un uomo come Viani, uno scrittore che ha avuto la sua ora di successo, una persona seria, che conosce tutti, che ha una bella casa, che riceve. Come faremmo noi senza Viani, me lo domando, ma di fronte all’interesse del Paese…”, perché ormai su te può contare e gli sarai più utile per gli affari ad alto livello dell’azienda che a capo di quella direzione, di quel programma, di quella collana , dove basta un giovane. “Anzi” egli confida ai suoi lavoratori “data l’aria che tira oggi ci vuole un giovane, uno che abbia un successo recente” e ha già scelto a chi dire, come a te, che vuole andargli incontro, risolvere le sue difficoltà, affinché possa scrivere tranquillo: è uno di quei giovani che ti parlano con deferenza, uno che non ha soldi per sposarsi con quella ragazza che vuole tradurre qualcosa. Di nuovo abbracci sulla porta, e, a casa, abbracci con i ragazzi – che ormai sono grandi e che, tra i loro coetanei, dicono che sei superato, che non ce la fai più a scrivere, che loro, in verità, i tuoi libri non li hanno mai letti – e abbracci con tua moglie che, poi, mentre viaggi col permanente nello scompartimento riservato ai deputati, se ne va alle esposizioni di pittura, ai concerti, con uno di quei vostri amici che non è il caso di invitare quando ricevete e gli dice con un sospiro: “Io avevo sposato un romanziere, capirà, un poeta…”. E tutto questo perché? > ho domandato ad Antaldi, guardandolo in faccia. < Per quei mobili, quegli elettrodomestici, quei vestiti, per quelle villeggiature a Capri o a Courmayer, dove tua moglie ti sballotta tra la gente, immusonito dalla difficoltà di telefonare, di ricevere posta dalla donna che ti piace, che ami. Per partecipare a giurie letterarie, a congressi, dove si premia e si discute ciò che altri scrivono. Ah, no! > ho concluso: < Dostoevskij dice che il potere non è dato che a chi si abbassa a prenderlo. Io voglio un potere soltanto: quello di rimanere nella mia condizione di scrittore, e di povero.>

Alba de Céspedes, Il Rimorso

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