Libertà (o storia vera di un tropismo perpetuo)

Esiste un’affollata quanto angosciosa rosa di significati dentro la Libertà di Franzen.

Affollata, perché i sotto-testi di quella che il sistema adotta come esistenza standard, sul modello del buon padre di famiglia, oltre ad essere tanti, normalmente non perdonano e si presentano con la puntualità di un baco nella tessitura del suo bozzolo.
Angosciosa, visto che non vi si sfugge se si vive nel modello “vincente” della società capitalistica alla quale il secolo scorso ci ha plasmati dalla nascita (normalmente senza che noi si abbia la possibilità di accorgersi o dissentire).
Il racconto permette a chi legge di apprezzare i paradossi, le insidie e la ferocia che si frappongono tra la parola (libertà) ed il suo significato, cogliendone al tempo stesso la metamorfosi.

Per buona parte del Novecento, la libertà era stata la chimera di un mondo insanguinato da decine di grandi guerre più o meno storicizzate; poi sul finire del secolo, deposte le armi, un conquistato e rassicurante benessere vedeva la luce sulle ceneri delle generazioni precedenti. La libertà cambiò pelle, seguendo la stessa muta della società.
Malgrado qualcuno, anche all’alba del nuovo millennio così civilizzato, non abbia mancato di proclamare nuove guerre in nome della vecchia libertà (ed infatti l’oscena Enduring Freedom compare più volte tra le righe di vita dei personaggi), a partire dalla fine degli anni ’70 del Secolo Breve le rivolte per la libertà “fuori” vennero lentamente sopite dalla guerra di trincea per la libertà “dentro“.
Pochi anni per sbattere in soffitta interminabili secoli di Cicerone, Si vis pacem para bellum, e preparare piuttosto sé stessi ad una nuova prospettiva di libertà, quella di chi fugge dalla violenza silenziosa che l’uomo crea nelle e sulle relazioni, annunciata da Sartre quando scrisse -senza preconizzare nulla di più se non l’evoluzione dell’essere umano- che l’inferno sono gli altri, e spiegò che immersi nelle fiamme siamo in primis noi stessi, nel nostro io, così nauseati da quanto ci circonda.

– Era sarcastica?
– Non lo so. Forse sì, adesso che ci penso. Io ero solo contenta che mi rivolgesse la parola. So che mi odia. Ma poi ho pensato che magari si sta finalmente abituando a me.
– Ne dubito.
– Scusa se ho detto la cosa sbagliata. Non direi mai la cosa sbagliata, se sapessi che è sbagliata. Tu lo sai, vero?

Franzen proietta con le sue pennellate contemporanee i fasci di luce figli di questa nuova griglia di significa(n)ti e il suo racconto diventa lo specchio su cui si riflette l’ambiguità che  la “moderna” libertà contiene.
Ogni personaggio, autore della sua personale gabbia, conduce un eterno agone col proprio ego e col mondo per rivendicare nel nome della libertà la propria dimensione, fatta di dipendenze, ossessioni, schemi, stereotipi, sogni mai realizzati e violenze taciute e mascherate.

Si può volersi mettere in trappola per poi fare della libertà così abbandonata l’orizzonte dei Campi Elisi cui tendere per dare un senso alla propria vita? Si può desiderare di non essere più liberi al solo fine di voler essere poi liberi? Logicamente no, realmente sì, così come in nome della salvaguardia di un rapporto ci si può rovinare l’esistenza o come per salvare un raro pennuto in estinzione si distruggono montagne climaticamente a lui avverse. Logicamente no, realmente sì.

Libertà che è ambiguità, ma a guardare bene ambiguità che è anche verità. Perché gli uomini e le donne che sono acqua e farina del grande impasto del pianeta sono fatti di anima e carne, e anima e carne non temono nulla, se non la logica.

La famiglia, i genitori, l’educazione, con e senza correzioni, il modo di amare, il rito del sesso, la linea sottile tra il volere e il de(-)siderare: il rimorso di una vita mai vissuta come desiderata, ma come voluta, ossia pretesa, tirata a sé, senza quella libertà che si vorrebbe raggiungere a tutti i costi, senza badare ai nodi, che aggrovigliando la nostra esistenza la rendono infine immobile, tirata ora da questo ora da quel filo, impigliato in un angolo del nostro passato, che solo perché non c’è più non vuol dire che abbia smesso di essere spigoloso.

Forse, la Libertà di Franzen è davvero quell’invisibile equilibrio di riuscita tra la giusta dose di acqua e la giusta dose di farina che ognuno di noi si affanna a trovare sulla pesa della propria vita.
O forse si tratta solo della storia dei rispettabili coniugi Berglund di Washington.
Liberi di trovare la risposta, come di non cercarla nemmeno. In ogni piega della nostra quotidianità,  in fondo, quello che la vita ci costringe a capire con la violenza indifferente che il mondo sprigiona, è che la nostra libertà è ciò che non vediamo finché non ce lo prendiamo, perché da noi dipendeva e dipenderà volerla, e da noi dipendeva e dipenderà viverla.

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