Dinner Party – L’ultima notte di un’epoca

Pier_Vittorio_TondelliDifficile definire l’unica pièce di Pier Vittorio Tondelli, da lui stesso indicata, a seconda delle versioni, come «commedia borghese di conversazione» o «dramma un po’ violento e un po’ sofisticato». Il paradosso è d’altronde solo apparente, dato che, come si legge anche nel testo, «il genere tragico è definitivamente tramontato […]. L’unica forma tragica è l’ironia. Perché non permette la tragedia». Dinner Party, l’opera con cui Tondelli si aggiudica il trentottesimo Premio Riccione-ATER, è infatti un esercizio a suo modo sperimentale, non tanto nella struttura in due atti, del resto più che consolidata, quanto nell’alternanza dei registri e dei temi affrontati.

almodovarComposta nel febbraio del 1984, e forse addirittura nell’arco di tre giorni, la storia si svolge nel corso di una sola notte, quella della finale Italia-Germania. È infatti l’11 luglio 1982, e mentre fuori regna il silenzio, interrotto soltanto da qualche boato di esultanza, sulla terrazza di casa Odofreddi sta per consumarsi un autentico dramma. Sin dalle prime scene, morbose e soffocanti come l’estate in cui hanno luogo, assistiamo a una tresca tra Giulia, la padrona di casa, e Alberto, il miglior amico di suo marito. I toni sono languidi e esasperati, da soap opera, e patetico è l’effetto che ne deriva. Ci penserà Didi, il cognato di Giulia, a interrompere finalmente i loro spasimi, annunciando l’arrivo del fratello Fredo e di un ospite, Tommy, venuto a trovarli direttamente dagli States. Alla comitiva si aggiunge poi Mavie, eccentrica direttrice di un rotocalco femminile, la quale non vede l’ora di essere presentata ad Annie, la nuova fiamma di Alberto. L’atmosfera è frizzante, quasi elettrica, e l’aria che si respira è quella prima di una tempesta. Si intuisce infatti, grazie anche a una registrazione ascoltata da Fredo, che Annie in realtà non è altro che Giulia, e si resta pertanto spiazzati quando, proprio sul finire del primo atto, entra invece in scena proprio l’amante di Alberto. Da lì in poi la situazione andrà degenerando, e verranno messi in discussione non solo i ruoli dei vari personaggi, le relazioni che tra loro intercorrono, ma anche l’identità di ognuno di questi. Si scoprirà così che «Alberto è il maschile di Annie», che la gelosia di Fredo non riguarda solo la moglie e che il calcio, talvolta, non è poi uno sport così virile.

american-psychoTra sospetti e tentativi di omicidio, parrucche volanti, e confessioni estorte a forza di drink, sembra, e a ragione, di trovarsi in una pellicola di Almodóvar. Col regista spagnolo, che proprio in quegli anni andava realizzando le sue prime opere, Tondelli ha effettivamente in comune una certa sensibilità post-moderna, fatta di citazionismo esasperato e amore per il cattivo gusto. Siamo del resto in pieni anni 80, il decennio della street-art e della moda come nuova frontiera artistica, e dunque non sorprende che si parli di profumi, musica disco o astici in crema di peperone. Bret Easton Ellis non ha ancora pubblicato American Psycho, ma già si discute di consumismo, di «camicie senza collo di Brooks Brothers, 346 Madison Avenue, abiti di gomma di Thierry Mugler, biancheria intima rigorosamente Calvin Klein». Eppure, nonostante l’affermarsi della nuova «Internazionale Occidentale», sarebbe sbagliato ridurre quest’opera a un affresco, per di più superficiale, della cosiddetta «look-video-atomic generation». Come afferma lo stesso autore «è una storia di trentenni, di una generazione a cui è difficile affibbiare delle etichette», ed è proprio contro questa smania definitoria che si ribella Didi. Sarà lui ad affermare che «non esistono proprio le generazioni stratificate ogni venticinque, dieci o due anni. Sono delle spaccature verticali, degli abissi che fendono diacronicamente il tempo», e non è dunque un caso che questa figura, più dedita al bere che allo scrivere, ne richiami altre a lui coetanee. Il riferimento non è solo a Bruno May, l’ambizioso scrittore che compare in Rimini, ma anche ai personaggi tratteggiati, cinquant’anni prima, dal caro vecchio Christopher Isherwood.

judy-chicago

Se il titolo, perlomeno nella sua versione definitiva, deve la propria origine all’omonima installazione di Judy Chicago, alla cui presentazione Tondelli stesso era stato invitato, è però verso lo scrittore inglese che l’autore manifesta il suo più grande debito. Certo il testo, per i dialoghi e il contenuto, molto deve anche a The cocktail party di T.S. Eliot, ma è in Goodbye to Berlin che troviamo la definizione più adatta a quest’opera bizzarra:

«Stasera è la prova generale di un disastro. Sembra essere l’ultima notte di un’epoca».

Photocredits: www.judychicago.com; allmovies.ge; anobii.com; www.salteditions.it; www.doppiozero.com

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.