Album di famiglia… say cheese

La combinazione ‘famiglie della middle-class di provincia’ (di ogni epoca) e ‘scheletri nell’armadio’ è un luogo comune letterario e sociale che ci ricorda che spesso le apparenze sono funzionali a spostare l’attenzione rispetto a altri segreti più nascosti o a speculazioni, tanto che questo vecchio cliché è ancor più di frequente coniugato come una forma del bovarismo nell’accezione – formulata da Jules de Gaultier – di:

Facoltà che appartiene all’uomo di concepirsi altro rispetto a ciò che è in realtà, poiché l’uomo è impotente nel realizzare questa concezione diversa che si forma di sé stesso!

Dunque come riflesso che contiene la tendenza dell’ipocrisia all’auto-giustificazione accettata dalla coscienza – secondo il filosofo André Lacroze – come la possibilità del soggetto di auto-persuadersi della sua propria unità attraverso un atto di pura volontà. Oppure sarebbe possibile associare questa attitudine agli slanci dell’ostinazione del mulo che esalta la propria genealogia, incensandosi nel proclamarsi nobile, dimenticando tuttavia una più umile origine, quella di suo padre, l’asino, così, causticamente, almeno è come tratta la questione la favola di La Fontaine.

Malgrado tutto, le potenzialità interpretative non si esauriscono. In effetti, to have skeleton(s) in the closet significa censurare una questione troppo compromettente – o troppo dolorosa – e consequentemente abbandonata all’oblio del passato ‘morto e sepolto’.  Allora, solo la memoria resta testimone indiscreta o piuttosto nuova traghettatrice. Il filosofo Sant’Agostino scrisse:

Quando sono là dentro [alla memoria] evoco tutte le immagini che voglio. Certe si precipitano a onde. Le caccio con la mia mano finché quella che cerco si schiarisca e si faccia avanti, emergendo dalle prigioni del mio sguardo.

familyalbumAbbastanza affascinante questa dinamica della memoria che opera esporando «frozen moments and slides», ossia il mélange di contingenze e distorsioni che si sprigiona dal confronto e della comparazione conflittuale tra sfera privata e sfera pubblica. Si tratta delle esperienze rielaborate dall’interiorità – affettiva e intellettuale – restituite, in seguito, alla realtà, in maniera analogica, indiretta. La non-consequenzialità si produce quando la Storia incontra la Prosa.

Proprio in questo modo sembrano procedere i ricordi d’infanzia di Gina Harper che riemergono prepotentemente non appena la sua auto svolta sul Boulevard della cittadina di Allersmead che la conduce, dopo molti anni, alla casa dei suoi genitori. In quel momento preciso, tutto il suo passato si riavvolge e si rianima mentalmente. Ora Gina Harper è una giornalista, emancipata, popolare che non desidera più di tanto scavare nel repertorio dei propri trascorsi infantili, tantomeno ripensare ai rapporti con i suoi famigliari, ma soprattutto non intende minimamente ripercorrere QUEL giorno, il giorno in cui tutto cambiò. Ma non tutto può essere sotto controllo: come, ad esempio, la curiosità del proprio fidanzato che inizia l’interrogatorio davanti alle foto di famiglia, incorniciate lì insieme al resto dell’arredamento, lì sul camino. un-posto-perfetto

Infine, un album di foto da sfogliare si rivela una tecnica di riscoperta della memoria volontaria sollecitata dalle domande sulla saga della famiglia di Charles, padre erudito, pedante antropologo detrattore di Magaret Mead, scrittore know-it-all solitario e caustico; poi Allison, una sorta di madre-terra, di madre-tutto, di madre-mondo, votata alla procreazione e alla cucina; e Ingrid la vecchia  ragazza-alla-pari, arrivata in gioventù e invecchiata in seno a quel focolare, ormai integrata al clan; infine sei figli a unire questa tribù, una famiglia numerosa, un gruppo di estranei. In comune, però, resta una cosa importante, la grande casa in stile edoardiano con i suoi spazi interni démodés e un po’ decrepiti nel bel mezzo di un giardino dove rigogliano numerosi alberi adulti.

Ma questi non sono solo fatti razionali, in quanto frammenti dell’intelligenza, ossia la memoria che – a seguire la teoria di Proust – permette di richiamare una selezione di sensazioni del passato, esattamente come tali si sono succedute nel tempo, in termini logici, senza cogliere l’insieme dei sentimenti che hanno reso gli avvenimenti vissuto qualcosa di vivo e vitale.

la-casa-dal-grande-giardinoQuesto decoro ricorda l’atmosfera di un altro racconto, sempre della stessa scrittrice, Penelope Lively – The House in Norham Gardens (1974) (La casa dal grande giardino) – in cui una una bambina, quasi adolescente, coraggiosa deve confrontarsi proprio al valore della memoria, comprendendo che solo l’evoluzione del passato può dare senso al presente e che questo passaggio del tempo è il primo fondamento dell’identità.

Ancora una volta, l’attenzione centrale è accordata allo spazio abitato, alla casa, e obbedisce alla convinzione che l’architettura e il paesaggio sono metafore della storia che resta scolpita nel tempo. Gli edifici sono la ‘facciata’ esterna di questa prova eloquente iscritta nel mondo fisico.

penelope-lively-illustration

Per questa sensibilità, Penelope Lively realizza in letteratura – consapevolmente – l’idea espessa da William George Hoskins che in The making of the English Landscape ha qualificato i narratori come migliori topografi.

Alla mappa della ricerca del tempo perduto si aggiunge una epifania in decadenza: la percezione di una verità sconosciuta, eppure presente come presentimento e intuizione, di cui tutti (nell’ambito di una famiglia in cui la comunicazione funziona poco o male), simultaneamente, sono al corrente, e ecco la reminiscenza della memoria involontaria, questa volta, dei sensi delle emozioni…

Nello svelamento dei rapporti tra fratelli si libera lo spleen della distanza, ma non sarà consegnata a Gina la parola che cuce i frammenti, bensì a sua sorella Claire:

E brava Claire! Hai aperto il grande armadio con lo scheletro dentro. Cosa ne penso io? Solo che a ben guardare tutte le famiglie hanno i loro problemi, o sbaglio?

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