Michela Marzano: un nuovo genere in “Stirpe e vergogna”

Poco tempo fa ho letto l’ultimo libro di Michela Marzano, è un libro speciale che sta tra il genere romanzo, dopo L’amore che mi resta (2018) e Idda (2019), e quello di memoir. Ho deciso finalmente di parlarvene e lo dedico soprattutto a chi di voi non vorrebbe fuggire dal proprio passato. Soprattutto ve ne parlo perché sono legata all’autrice da una profonda stima personale che ho per lei – ho avuto la possibilità di intervistarla due volte e ho letto praticamente quasi tutte le sue pubblicazioni.

Stirpe e vergogna (Rizzoli, 2021) va in profondità e in espansione riuscendo a toccare argomenti sensibili in un’indagine personale secondo la prospettiva percettiva dell’autrice con l’inconscio a fior di pelle. Questo libro ha una voce schietta e incalzante, che pur sospendendo il giudizio non smette di interrogarci e di invitarci a coltivare la memoria, perché solo così si può sperare che certe cose non accadano più. Il percorso e lo sforzo di sospendere il giudizio lo fa l’autrice ma a un certo punto anche il lettore inizia a farlo insieme a lei.

Rigurgiti fascisti stano tornando in voga e lo vediamo purtroppo ogni giorno. Facciamo fatica a confessare la vergogna del passato dei nostri antenati e del nostro Paese. Marzano racconta, dopo aver ritrovato una vecchia teca piena di tessere e medaglie del Ventennio del nonno paterno Arturo, la storia della sua famiglia ridisegnando il percorso che l’ha resa la donna che è oggi. I dubbi e le riflessioni sono molte:

«(…) c’è forse solo la severità con cui continuo a giudicare me stessa. Ma non è proprio per il terrore di fare del male a mio figlio che questo figlio, oggi, non esiste?
La paura di riprodurre cose vissute, oppure di fare l’esatto contrario e di sbagliare lo stesso – «Non me lo merito» diceva papà quando gli vomitavo addosso la mia rabbia; «Non me lo merito» dico talvolta a Jacques quando mi ignora; ma l’amore si merita? È questo che avrei insegnato a mio figlio?

– Stirpe e vergogna, pag. 364

Dietro ogni saggio o libro di narrativa dell’autrice c’è sempre l’elemento autobiografico. In questo caso parte dalla nemesi storica della sua famiglia e non ci sono vie di fuga. Vuole andare in fondo, nel legame tra sangue, eredità e memoria. Usa la scrittura che ha portato a questo libro per trovare il bandolo della matassa, per fare sul serio i conti col passato, per capire parte delle sue scelte, impuntature, sconfitte e rinunce. Perché la scrittura è sempre un atto che spinge a fare i conti con se stessi.

Michela Marzano

Da sempre Marzano ha cercato di stare dalla parte giusta (ricordiamoci che è stata un’ex parlamentare che si è dimessa per una causa giusta!) e stavolta intraprende una serrata ricerca del passato della sua famiglia che va ad intrecciarsi con il momento più triste della storia del nostro Paese. Allora racconta tutto, le sue ansie, i suoi drammi personali e le sue riflessioni mescolando la narrazione romanzata in un’epoca ormai lontana della storia di suo nonno, con cui fa finalmente i conti. Cerca di immedesimarsi in suo nonno, con la volontà e le scelte, nel contesto storico e ha immaginato e creato un racconto.

«Per anni ho pensato che la vergogna fosse una conseguenza della mia ansia di perfezione; e che l’ansia di perfezione fosse, a sua volta, il risultato della paura di non corrispondere alle aspettative che avevo su di me. Oggi mi chiedo se sia questa la sequenza esatta, oppure se, per anni, il mio errore sia stato non capire che il punto di partenza era proprio la vergogna.»

– Stirpe e vergogna, pag. 82

Michela Marzano si è sempre vergognata tanto, da bambina e da ragazza, e anche ora talvolta. Per dieci anni, ha rifiutato anche solo l’idea di diventare madre. Per anni ci racconta di aver lasciato tutti gli uomini con cui viveva e non appena veniva fuori l’argomento dei figli, si innamorava di qualcun altro, oppure ricominciava a vomitare, oppure pensava di nuovo al suicidio. Da bambina o da adolescente, Marzano non aveva immaginato un futuro senza figli e quindi il rapporto con la maternità diventa complesso nella sua esperienza di vita. Nel libro racconta che ha avuto fondamentalmente paura. Paura di riprodurre cose vissute in passato oppure di fare l’esatto contrario e di sbagliare lo stesso. C’è poi il caso, ci sono anche le opportunità, ma soprattutto non ha dato fiducia a se stessa con la severità con cui continua a giudicare se stessa ma nemmeno al futuro perché un figlio è un debito che si contrae col futuro.

Quando non lo si elabora, il passato ci agisce. Non si può trascurare. Ma non è solo una questione di rielaborazione del passato attraverso la memoria, la rielaborazione dei ricordi e della sua storia familiare, ma anche una questione di cura senza necessariamente guarire dalle proprie fratture. Basta attraversarle e capire che solo le nostre scelte quotidiane ci dicono chi siamo e ci portano (forse, speriamo!) a versioni migliori di noi stessi.

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