Bambino, ragazzo, uomo, ma sempre figlio. Intervista a Giulio Perrone su America non torna più

C’è un momento, nel rapporto tra un padre e un figlio, dove la complicità, i giochi, la comprensione nel tempo di uno sguardo lasciano il tempo ai silenzi e le incomprensioni. Si rompe qualcosa, sempre, e tutto quello che viene dopo è un tentativo inevaso di rimettere insieme i pezzi, tra il senso di colpa e la rabbia verso l’altro. Una storia comune a tanti, forse tutti. Sicuramente è così anche per Giulio Perrone, che nel suo America non torna più, edito da HarperCollins, ci racconta il suo essere figlio provando a riempire i buchi della memoria, le parti più sfocate dei ricordi familiari di suo padre. Ne esce fuori un racconto struggente, intimo, una piccola cura per l’anima fatta con emozione e divertimento.

Ne parliamo con l’autore che ringraziamo per la disponibilità.

Giulio Perrone
Giulio Perrone

Un tema come quello portante di America non torna più, ossia il rapporto tra un padre e un figlio, si porta dietro una domanda scontata, ossia quanto c’è di autobiografico in questa opera. Io voglio provare a cambiare un po’ la domanda: ogni opera di fiction ha qualcosa di autobiografico, ogni opera di non fiction ha una rielaborazione narrativa che la realtà non comprendeva. Come sei riuscito a calibrare queste spinte nella tua opera? E in generale, come nasce America non torna più?

Il romanzo nasce dall’ossessione che avevo per il rapporto con mio padre. Potrei dire che questo romanzo è stato il motivo per cui alcuni anni fa ho ripreso a scrivere anche se ci ho messo molto tempo ad affrontarlo. Le prime due volte in cui ho tentato di scriverlo mi sono fermato quasi subito perché non riuscivo a trovare la strada giusta per raccontarlo.

Il tuo romanzo dimostra come il rapporto tra un padre e un figlio abbia, sempre, un punto di rottura. C’è la nostalgia dirompente di quando il giovane papà e il figlio bambino avevano una complicità che sembrava eterna, una squadra perfetta, e si finisce verso i fastidi, le incomprensioni, i non detti che costellano il rapporto quando i figli crescono ed i padri imbiancano, tanto per parafrasare Battiato. Perché un rapporto padre-figlio non può che essere così?

Credo che sia inevitabile perché cambiamo noi negli anni ma anche perché lentamente un figlio da bambino diventa ragazzo e alla fine uomo, con i suoi sogni, le sue speranze, le sue ambizioni. A quel punto il rischio è che non si riesca a trovare facilmente un punto di contatto e lo sforzo sta nel rintracciare ogni più piccolo ambito in cui sia possibile incontrarsi e ricostruire un rapporto. Nel mio caso il momento maggiore di distacco è coinciso con la malattia di mio padre e questo ha costituito per me in quel momento una grave crisi e successivamente un senso di profondo rammarico.

In un romanzo basato sul rapporto tra padre e figlio, ad essere inserito nel titolo è America, un amico del padre del protagonista morto in circostanze misteriore. Un ragazzo che si è perso, e il cui ricordo porta amarezza e viene spesso nascosto in un cassetto. Il protagonista si appila a questo non detto, a questo buco della sua trama familiare per capire qualcosa di più di suo padre e di se stesso. Vuole trovare ciò che rimane tra le pagine chiare e le scure. Ma perché è così importante?

Sono cresciuto con i racconti mitici di mio padre sulla sua adolescenza al punto di sentire quasi di averne fatto in qualche modo parte. America, di tutto questo gruppo, era il personaggio più enigmatico e anche l’unico che non ho mai conosciuto di persona. Apparteneva ad un’epoca in cui mio padre mi sembrava così diverso da come lo avevo conosciuto nonostante fosse sempre rimasto legato a quei ricordi. Immergermi nel rapporto con lui non poteva non spingermi anche in quel mare così burrascoso che sono i ricordi e i sentimenti che si annidano nella giovinezza di un padre.

Molto spesso si parla della distinzione tra storia e memoria, e di come quest’ultima, nel suo essere soggettiva, personale, intima sia comunque un fondamentale passaggio di consegne tra generazioni diverse, di cui questo romanzo ricalca una fedele trascrizione. Cosa insegna, al protagonista e a noi lettori, la personalissima memoria del padre?

Penso che insegni a riflettere su di sé, a rimettere se necessario in discussione ogni certezza ed essere pronti a cambiare vita. Personalmente questo libro mi ha permesso, tornando non solo a mio padre, ma anche al ragazzo che ero, di riflettere sull’uomo che sono diventato e su quello che ho costruito. Credo che ogni tanto sia necessario avere il coraggio di confrontarsi con la propria storia e la propria memoria perché oggi tutto ci porta ad essere frenetici e a guardare solo al domani senza però avere contezza precisa di quello che siamo stati e quindi di quello che vorremmo essere.

In questi mesi finalmente sono tornate, almeno per un po’, le presentazioni nelle librerie e nei festival. Una delle forze del tuo romanzo è quello di entrare in empatia con le persone, di rappresentare una storia individuale e renderla universale. Quali sono state le tue sensazioni nel portare America non torna in più su e giù per l’Italia? C’è un commento, una frase, un feedback che ti è rimasto particolarmente impresso?

Devo dire che sono stato fortunato perché da settembre fino alla fine dell’anno ho potuto fare tantissime presentazioni incontrando il pubblico: l’incontro con gli altri è un aspetto fondamentale ed è molto diverso rispetto agli eventi online. Il regalo più grande è stato quello di farlo accompagnato da tanti grandi scrittori che sono anche cari amici e mi hanno permesso di avere molti sguardi diversi sul libro. Rispetto ai lettori invece è sempre bello sentire che quello che hai scritto può essere servito per affrontare un momento difficile o per rimettere a posto alcuni ricordi sopiti del rapporto, a volte difficile ma sempre profondo, con i propri padri.

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