Foxtrot – Quando il destino bussa alla tua porta

Il film di Maoz deve il nome ad un ballo. Si tratta di una coreografia piuttosto semplice, basata su quattro passi, nella quale si torna sempre al punto da cui si è partiti. Pur spostandosi in tutte le direzioni, il ballerino traccia infatti un perimetro che, al contempo, lo limita e lo guida. Questo è ciò che accade anche al nostro protagonista, l’architetto Michael Feldman (Lior Ashkenazi), la cui vita è definita dalla morte del proprio figlio.

foxtrotFoxtrot descrive appunto l’elaborazione di un lutto, e lo fa attraverso tre fasi distinte: l’annuncio, lo sviluppo e la risoluzione di questo evento. L’impostazione narrativa è delle più classiche, da tragedia greca, e, come avviene nei testi antichi, anche qui è il destino a dirigere le azioni. Nessuno sembra infatti potersi sottrarre all’ineluttabile. Più si teme qualcosa e più è probabile che si realizzi, e questo non tanto perché siamo noi a provocarla ma, piuttosto, perché rifiutiamo di accettarne l’eventualità. Evitare il dolore è pertanto inutile, oltreché impossibile, e così negarne le conseguenze. Gli accidenti, in quanto tali, accadono, e, per quanto sia frustrante da ammettere, su di essi abbiamo scarso controllo. Tuttavia, sebbene non sia onnipotente, l’uomo non deve nemmeno credersi passivo: la consapevolezza di un limite può aiutarci a superarlo, e lo stesso vale per le ferite. Persino quelle più profonde.

[SPOILER] Tra queste, appunto, c’è la perdita di un figlio. L’unico desiderio di Michael, una volta comunicatagli la notizia, è quello di riportarne a casa la salma. Si tratta di una richiesta legittima, ma avanzata per un motivo sbagliato: l’uomo non crede a quanto gli è stato detto, e pretende anzi che gli si provi il contrario. Caso vuole si tratti proprio di un malinteso, dal momento che il figlio Jonathan è vivo e, come richiesto, ne è già stato ordinato il rientro. Quel che sembrava scongiurato è però destinato ad avverarsi: il soldato cadrà infatti nel tentativo di esser portato in salvo.

foxtrot3Certo si tratta di una trama macchinosa, forse inverosimile e sicuramente poco fluida, ma, non per questo, il messaggio ne è intaccato. Quel che Maoz ci propone, con la sua messinscena surreale e pretenziosa, altro non è che una moderna riflessione sul destino. Abbiamo già detto di come il protagonista, impedendo che la profezia si avveri, finisca per favorirne la realizzazione. Egli è infatti un novello Edipo, incapace di accettare la sua fine e destinato, pertanto, ad accelerarla. Diverso è invece il caso di Abramo, il cui figlio è risparmiato proprio perché ne accetta il sacrificio. Siamo di fronte a due concezioni opposte, eppure complementari, dato che entrambe suggeriscono di non opporsi all’inevitabile. I rimandi alla tradizione ebraica, essendo il regista israeliano, sono peraltro molteplici: il destino sembra associarsi alla colpa, la punizione alla disobbedienza. Ancor più evidenti sono però i riferimenti a un’altra dottrina, quella psicoanalitica, derivante, non a caso, dallo stesso pensiero giudaico. L’unica maniera per intervenire sul futuro è dunque lavorare sul passato, cercando di «rendere conscio l’inconscio ed evitare, così, di chiamarlo destino».

foxtrot1Nessuno è quindi responsabile di quello che può accadergli, a meno che non sia lui stesso a colpevolizzarsi. Ognuno di noi ha infatti i suoi demoni, i suoi traumi irrisolti, e l’unica cosa in nostro potere è cercare di ammaestrarli, impedendo che siano essi a decidere per noi. Se ci sentiamo infatti colpevoli finiremo per comportarci come tali – Kafka ce lo insegna – innescando così una coazione a ripetere che, per l’appunto, non farà che confermare le nostre convinzioni. Accettare la realtà non significa perciò rassegnarvisi, ma reagire ad essa.

Tutti, che ci piaccia o no, siamo infatti chiamati a vivere, e la vita, come ogni danza, ha le sue regole prestabilite. Solo padroneggiandole possiamo quindi sperare di cavarcela, ballando per non esserne in balia.

Photocredits: http://www.gramunion.com; https://www.comingsoon.it.

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