Gli spazi di Nathalie Sarraute

Nathalie Sarraute in quanto creatrice ha abitato e aperto alcuni spazi. Spazi culturali che stringono la mano della sua geografia biografica e bibliografica. Partiamo allora per un piccolo tour, non esaustivo ma propulsivo.IMG_20151212_111816

Sembrerebbe lo spazio più scontato e invece è il più rivoluzionario a mio avviso, si tratta dello spazio virale della cellula organica esistenziale, il recinto della parola. Ouvrez è interamente dedicato a questo perimetro da penetrare per vivere apertamente l’area della comunicazione. In uno scambio verbale tra persone si opera spontaneamente una selezione delle parole o dei discorsi reputati ‘accettabili’ o ‘opportuni’, il resto viene espulso, non passa nemmeno le maglie delle rete difensiva, resta a margine, come se saltasse l’ostacolo della nostra testa. Delle parole arrivano dall’esterno, una barricata si alza, ciò che ‘vogliamo sentire’ è fatto entrare, ciò che non desideriamo ricevere rimane fuori e tuttavia non sempre svanisce: alcune parole, alcuni propositi restano lì, fuori dalla ‘porta’ e ‘ascoltano’ ciò che avviene nel salotto delle espressioni ammesse e non censurate. Le parole bannate, i non detti, i non ammessi, gli impronunciabili osservano attraverso la barriera trasparente eretta per distinguere. E lì fuori, per momenti, quello a cui gli ‘esiliati’ assistono ingenera in loro la voglia di intervenire, è a quel punto che iniziano a ribollire, a scalpitare e chiamano… richiamano l’attenzione… capita che organizzino una rivolta fino a caricare impetuosamente le truppe tracimanti all’urlo della riscossa, contro gli argini, Aprite!!!

Quello che ha sempre suscitato Nathalie Sarraute è un profondo rispetto e, per molti, quelle brusche apparenze e quella difficoltà di sentirsi alla sua altezza come scrittori o come lettori hanno preso la sembianza di un’aura di inaccessibile mistero. Una donna forte, timida, che avrebbe desiderato «amarsi come si amava Marguerite Duras», cioè a dire senza condizioni, anche e soprattutto nei limiti e senza giudizi, sregolatamente. Una donna la cui vita privata ha mantenuto, nonostante la grande indipendenza, la morfologia tradizionale della famiglia numerosa e di uno studio dalla grande scrivania e dalla grande biblioteca in cui affrontare i ritiri e i pellegrinaggi della scrittura. Ecco un altro spazio, ‘domestico’ questa volta, l’ora blu sotto cui la sua ispirazione si è manifestata, Parigi. Non sembra vero di poter scorrere le deliziose pagine di L’après-midi realizzato a partire dal tesoro di ricordi condivisi da Michèle Gazier e illustrati da Denis Deprez. È nello spazio di un pomeriggio parigino che Sarraute ha ‘aperto le porte’ della sua casa e la sua mente alle ‘parole’ di Michèle – giovane giornalista aspirante scrittrice. Una conversazione serrata, complice da cui sono sgorgate qulle affinità che hanno saldato un’amicizia, quel tipo di amicizia che dura ‘fino alla fine’ – in tempo, però, per fortuna, per vedere i propri libri entrare nelle edizioni della Pléiade (Nathalie), in tempo, quindi, per fortuna, per farsi autografare una copia sigillata ‘Pléiade’ da quella maestra ‘materna’ che è stata anche la prima generosa lettrice del romanzo di debutto (Michèle – «Histoire d’une femme sans histoire»). sarraute«Quando ripenso agli anni con Nathalie Sarraute, è sempre il suo ridere ed il mio che sento. Una sorta di lingua semplice e sonora. Ridere con qualcuno coinvolge senza dubbio più che chiacchierare. Era la parte implicita della nostra relazione. Tutto era detto nella connivenza di quel ridere». Un piccolo libro, insomma, per ricordare quel pomeriggio in cui quell’amicizia iniziò, e per tratteggiare – tratti leggerissimi che costringono la matita ad infittirsi – i toni d’ombe e di riservatezza di una vita ‘apparentemente’ ordinaria in compagnia dei libri, della famiglia, di frequente in un piccolo traiteur libanais per redigere dei capolavori. Una donna che scrive dà le spalle ad una vetrina, si muove velocemente la mano che riempe della propria calligrafia un quaderno, per ore. «Quanti dubbi l’accompagnano incessantemente. Un dubbio che le fa attorcigliare le budella. Raccontava volentieri le sue mattinate in quel bistrot vicino a casa sua dove andava a scrivere tutti i giorni con la regolarità della brava alunna. Amava, diceva, quel luogo gestito da Libanesi che spesso parlavano tra loro in una lingua di cui ignorava tutto e la cui musica, lungi dal distrarla, accompagnava la sua scrittura».

La lingua straniera, il francese come lingua di scrittura di una scrittrice che è stata una bambina di origini russe. Se la lingua francese è l’acquisizione che celebra la parte ‘straniera’ dell’essere passato per la scrittura autobiografica di Enfance, la letteratura compiuta di Sarraute restituisce attraverso la lingua ‘adottata’ lo spirito russo in filigrana, proprio con riferimento a Enfance la studiosa Ruth Diver ha parlato di ‘racconto di una vocazione’ che rende conto dell’influenza russa per via del tentativo di ricerca della fonte a partire dall’illustrazione delle conseguenze comportamentali e soprattutto identitirie provocate dall’impianto in una nuova cultura. «Da me, le parole (…) hanno un’aria maldestra, presa in prestito, un po’ ridicola… si potrebbe pensare a delle persone trasportate in un paese sconosciuto, in una società di cui non hanno imparato gli usi, non conosconto come comportarsi, non sanno più molto bene chi sono…». Forse questa coscienza l’ha spinta a ‘osservare’ le parole con piglio clinico e delicato insieme, una volta assecondate e inanellate come una cordata in scalata, a passare al ‘momento che precede’- ai fili della batteria – al prelinguaggio. Dall’esplorazione della dimensione dei nervi del linguaggio il vulcano è esploso. Li ha chiamati Tropismi e li ha richiamati nella sua prefazione a L’era del sospetto commentando: «il mio primo libro conteneva in germe tutto ciò che nelle mie opere seguenti, non ho mai smesso di sviluppare». Pare possibile creare l’associazione tra questa sua fascinazione unitamente alla facilità, per lei, di visualizzare e istituire connessioni legate alle dinamiche interpersonali proprio in virtù del suo vissuto e delle sue capacità da poliglotta.

Annoverabile come narratologia linguistica, la sua opera rappresenta lo spazio culturale per eccellenza, ossia l’elezione artistica della scrittura. Nel caso di Nathalie Sarraute, la professoressa Françoise Asso ha coniato l’espressione ‘scrittura dell’effrazione’. Questa espressione rende conto implicitamente di un movimento scrittorio particolare e tipico di Sarraute che si basa su un metodo che potremmo definire di ‘lavoro sul motivo’. Proprio come la scrittrice ha ammesso in quella prefazione, una folgorazione, un tarlo, una convinzione, un pivot, un cardine dalla forma di ‘crepa, incrinatura’ è all’origine di ogni sua scrittura e sarà il crinale di un abisso costantemente ripreso e scavato. Lo squarcio di un tuono e di un fulmine primitivi. E Sarraute ci ha offerto tutti gli strumenti di speleologia della scintilla e dell’universo linguistico: la chiave di lettura autobiografica e la scena esemplare di avvio del suo lavoro, ossia la trasposizione del’esperienza affettiva in termini di poetica che passa per la messa a distanza e la valorizzazione del movimento di ricerca scientifica che conduce a una sorta di montaggio romanzesco fondato sull’effrazione in principio e che dice a suo modo che è sempre a partire da un dolore che si scrive, purtuttavia non si scacciano a vicenda – la scrittura e il dolore – ma agiscono alchemicamente, compiono la metamorfosi in motivo: è in questo modo che «è più forte di me» sarà veramente ciò a partire da cui scriverò. Certo, ciò farebbe di lei una scrittrice geniale ma non originale. Dove ha spinto più in là il livello della ricerca e dei suoi risultati? Mettendo in scena la storia delle ‘idee’, come fossero personaggi. Sarraute scrive come un lettore che cede alla tentazione di raccontare (raccontarsi) una storia.Jpeg

Quel crinale che assomiglia tanto a quella barriera che le parole incontrano in Ouvrez e nelle nostre relazioni interpersonali, qualcosa che viene da lontano, da un altrove. «Si direbbe un muro che di colpo si è aperto. Dalla crepa qualcosa è stato inghiottito, venuto da altrove». Estraneo, esterno, straniero… una dimensione che trova nella costruzione sintattica di Sarraute il tema dell’inversione: invertire l’ordine dei termini, delle costruzioni, costruire in basso, scavare nell’alto. Guardare la superficie dal fondo. Ribaltare sempre il punto di vista sulle persone, sulle cose, sulle situazioni, sui ricordi, sulle proiezioni. Come una roccia calcarea che sopravvive lo scorrere dell’essere. O dentro al nocciolo, Veniamo, allora, all’interpretazione di Arnaud Rynker, che ha esplicitato la dimensione della ‘speleologia saurrautiana’, una spedizione a colpi di scalpello – i tropismi che liberano le anguste strettoie da ciò che ostruisce gli strati del linguaggio, per scendere nella caverna sotterranea in cui la vita ha trovato nascita, la scena prima, emissione di suoni che spiegano la sintesi estrema a cui ricorre la scrittrice, silenzi come elemento proprio all’intimo, al controtempo della verità, per riattivare finalmente la coscienza e il senso della protofondazione che designa il mondo dell’origine, anzi, i sedimenti della nostra pietra focaia. «Ascoltatele, queste parole… ne valgono la pena, ve lo assicuro». Questa scienza applicata all’arte del romanzo indica la necessità di autenticità che risiede nel cessare l’avarizia dell’imporre alle trame personaggi che ‘andrebbero da sé’. La necessità di contestualizzarli senza frugare nelle pieghe psicologiche implica la riattivazione del centro essenziale, ricentrandolo, fuori dalle maschere, quindi nella prospettiva di un soggetto investito e non travestito dal linguaggio. «Il mondo nasce da una coscienza in ebolizzione. Scendere alle radici del sé significa allora scendere anche alle radici del mondo». Ma per intraprendere questa discesa, la condizione è di strappare l’Io alle categorie che l’hanno imprigionato secondo una tradizione psicologizzante. Questo ‘Io’ non esiste, non è che un’immagine semplificatrice di un luogo astratto e molteplice in cui una folla di voci si agita, un vocio vociferante a cui Sarraute offre la scena nelle pagine di Tu non ti ami. Il , invece, scoppia e emerge sotto la pressione delle sue diverse componenti.

«Ma te l’hanno detto: Tu non ti ami. Tu… Tu che ti sei mostrato a loro, tu che ti sei proposto, tu hai voluto essere di servizio… tu ti sei proposto a loro… come se tu non fossi solamente una delle nostre incarnazioni possibili, una delle nostre virtualità… Tu ti sei serparato da noi, tu ti sei messo in evidenza come nostro unico rappresentante… tu hai detto ‘io’…» «Ognuno di noi lo fa ad ogni istante. Come fare se no? Ogni volta che uno di noi si mostra fuori, si designa con un ‘io’ … »

La rivoluzione è questa: la letteratura in senso generale e più ampio possibile, per parlare delle narrazioni, si è imposta come fabbricatrice di eroi, modelli, profili, riprendendo la logica della ‘fissazione’ e dell’imitazione messa in atto da chi scrive e emulabile, poi, a ricezione avvenuta, da chi legge-assiste; Sarraute introduce un nuovo concetto di ‘salvezza umana’. Una salvezza non religiosa, esterna o delegata, ma una fedeltà e un’apertura alle differenze del nostro essere soggettivo. Salvare tutti i ‘me’ plurali e autonomi centrati in un’origine solare. Da questo sole si diramano i raggi che ‘siamo’ nei diversi frangenti della realtà. Non si tratta di un principio di follia, ma di un ancoramento mobile e tonico alla realtà, liberato dalle relazioni di/con ogni potere. La cui trasposizione può, per quanto mi riguarda, ritrovarsi in una citazione di Frantz Fanon, universalmente applicabile all’umanità, alla società, ai settori della cultura, alla dogmatica, alle relazioni e sopratutto ai pronomi personali.

L’iniziativa delle reazioni del colonizzato sfugge ai colonialisti. Sono le esigenze della lotta che provocano (…) nuovi atteggiamenti, nuovi comportamenti, nuove modalità di apparizione.

Rimane l’importanza di ciò di cui siamo dotati: di ciò che è riserva, la rivelazione dell’importanza di non disvelare. Il segreto dell’essere è un pudico filtro del plurale personale.

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