La rivoluzione è finita? No. La rivoluzione continua – Intervista a Marina Petrillo per Canto la piazza elettrica

Marina Petrillo è una giornalista, scrittrice, blogger, conduttrice radiofonica e, dal 2012 al 2014, è stata direttrice di Radio Popolare. Attualmente lavora al Parlamento Europeo. Ha pubblicato I muri di Belfast (Costa e Nolan, 1996) e, per Feltrinelli, Nativo americano. La voce folk di Bruce Springsteen (2010).

Mentre lavorava per Radio Popolare, e si interessava di citizen journalism e giornalismo sui social, è esplosa la Primavera araba. L’entusiasmo e la novità che contraddistinguevano quei momenti l’hanno convinta prima a seguirla in remoto, poi a viverla direttamente sul campo, e a continuare a occuparsene negli anni successivi.

A dieci anni da allora Marina Petrillo è uscita con il suo libro Canto la piazza elettrica, una raccolta di frammenti di memorie, notizie, emozioni. Frammenti che ricostruiscono Piazza Tahrir e tutta Il Cairo, in quel periodo di grande euforia e coinvolgimento, ma anche dopo, nel fallimento e nel terrore seguenti. 

Per capire l’Egitto contemporaneo è indispensabile capire anche che cosa sia successo dieci anni fa, chi sono stati i protagonisti, quali sono stati i temi di fondo, e Petrillo ha deciso di raccontarcelo così, con una raccolta emotiva, giornalistica e poetica di pensieri che quasi ricordano i tweet che partivano da Piazza Tahrir e che hanno contribuito a far esplodere le rivoluzioni della Primavera araba.

Canto la piazza elettrica ha una vicenda editoriale particolare, ricorda quasi le fanzine anni ‘80-’90, o uno di quegli album rock  indipendenti con una foto a toni freddi in copertina. Insomma è un’esperienza ribelle. Vuoi raccontarcela?

Pur avendo sempre immaginato che il libro sarebbe uscito con un editore tradizionale, ho sentito l’esigenza di avere un editor ancora  prima di entrare nella lavorazione con l’editore. Per questo ho coinvolto l’editor Fabrizio Coppola. Mi ero più volte bloccata nella scrittura e avevo la sensazione di aver bisogno di un altro paio d’occhi, di un’altro parere. Prima di tutto Fabrizio ha suggerito la modifica del titolo. Io l’avevo intitolato “La piazza elettrica” da una poesia di Walt Whitman, e lui l’ha indirizzato verso la citazione completa riuscendo a imprimere la prima persona con il verbo. Canto la piazza elettrica.

Marina Petrillo | Foto dell’autrice

Ha riportato all’idea che questa piazza sia una musica collettiva, un coro. Fabrizio mi ha anche aiutato a fare il primo giro con gli editori, ai quali mi sono approcciata in modo ingenuo. Ero convinta che saremmo riusciti a trovare una collaborazione interessante, ma avevo molta fretta: ero in ritardo sul decennale delle primavere arabe, volevo uscire entro l’anno e passava il tempo. L’editore che avevo trovato lo avrebbe pubblicato a fine 2022 e io non me la sentivo, era troppo avanti.

A quel punto Fabrizio ha lanciato la provocazione di uscire indie, il self publishing.

E in ogni caso il tema del libro si prestava…

Uno dei motivi per cui ho deciso di farlo è che riflette la realtà di quel fare le cose da soli, con le mani e con le poche risorse che si hanno che è raccontata nel libro, cioè quello che hanno fatto gli attivisti egiziani. Ne è uscito un libro che in qualche modo è un tributo al gruppo di persone che ho incontrato durante questi anni, e a cui sono rimasta legata. Ci sono tutti, se non sono nel libro sono nei ringraziamenti, e sono centinaia.

Tu cosa pensavi del self publishing prima di questa esperienza?

Come tanti avevo un grande pregiudizio. All’estero sta diventando una possibilità abbastanza solida, perché molte delle risorse professionali stanno uscendo dal mondo editoriale tradizionale e stanno sperimentando con altre realtà, quindi non c’è differenza di professionalità.

Gli editori per me dovrebbero avere il ruolo di guardiani. Siccome ho sempre creduto che lo scrittore vada scelto da qualcuno ho avuto molti dubbi se fare questa scelta o meno. Dopo la provocazione di Fabrizio ho iniziato a informarmi e convincermi. 

L’ho fatto ignorando quali potessero essere i risultati: dopo tre settimane dall’uscita del libro avevo coperto tutto l’investimento iniziale. Il libro continua a vendere tutti i giorni, lentamente ma costantemente.

Per me il mondo editoriale è importante, ma c’è una domanda che ha posto Giuseppe Genna e che continua a frullarmi in testa: “Che senso ha vendere diecimila copie di un libro che non ha senso nemmeno per la persona che l’ha scritto?” , cioè come trasmettiamo il senso di ciò che scriviamo? Per me la risposta è scrivendo per la propria comunità. Una volta io la pensavo molto diversamente da così.

Anche la copertina è particolare, hai scelto tu l’immagine?

Avevo un’idea molto precisa dell’immagine che ci doveva essere in copertina, la Nefertiti in a Gas Mask di El Zeft. Non credo che avrei avuto la stessa libertà di scegliere la copertina che volevo, con un editore tradizionale. 

Poi mi è venuto in soccorso lo studio 100km che ha fatto un lavoro straordinario con i colori, con le proporzioni, attraverso scelte difficili e un processo emozionante. Ora mi riesce impossibile immaginare il libro in modo diverso.

Anche a livello di struttura hai fatto una scelta molto coraggiosa: si tratta di frammenti, migliaia di frammenti, come estrapolati da un diario, da articoli, da pensieri. Con continui rimandi nel tempo. Tra il 2011, il 2013 e il 2015 e poi di nuovo indietro. Non c’è un ordine cronologico, ma un vero e proprio ordine emotivo.

Sapevo come doveva essere questo libro già dieci anni fa, ma non ero capace di scriverlo, per questo ci ho messo così tanto. Più scrivevo, più mi avvicinavo all’idea originale che avevo avuto. Nella struttura sono presenti diversi aspetti di quel momento della mia vita, tra i quaranta e quarantacinque anni, in cui ho incontrato questa vicenda storica, irripetibile per grandezza e importanza. Un aspetto è quello dell’avanguardia digitale e della sperimentazione di un giornalismo dal basso, sui social, nel quale ho lavorato per molto tempo. E poi c’è il piano sentimentale, quello della mia vita personale. Queste vicende sono capitate in un momento in cui ero molto innamorata, e in cui il mio amore si è sfaldato parallelamente allo sfaldamento della rivoluzione.


Sapevo di non voler scrivere un libro giornalistico e sapevo quali erano le mie scrittrici di riferimento: nella non fiction sicuramente Jenny Offill, Sarah Manguso, Kate Zambreno, ma anche nella fiction, con Rachel Cusk, Ali Smith. Era un tentativo di accostare il ritmo del pensiero e del ricordo al reale, al presente. 


Già nel secondo libro tagliavo a pezzettini le pagine stampate e poi le rimettevo insieme con lo scotch sul pavimento, e non avevo mai una scrivania abbastanza grande per tutti i pezzi. 
Fino a che non ho scoperto questo software incredibile che si chiama Scrivener che mi permette di visualizzare le scene per titoli. Mi permetteva di avere milleduecento scene davanti, potendole muovere, spostare da un punto all’altro, accostarle tra loro. Se una scena accostata a un’altra produceva un effetto, una frizione di qualche tipo, quale altre emozioni avrebbe suscitato accostata a un altro frammento? 

E questo è chiaro. Leggendo il libro si ha davvero la sensazione che tu abbia scritto, riscritto, riletto centinaia di volte, cercando quella frizione di cui parlavi.

C’è un concetto straordinario che trovo sia legato a quegli anni: il tempo cronologico (kronos) che si contrappone al tempo del significato, al tempo dei momenti decisivi, che è il kairos. La rivoluzione egiziana è tutta kairos.

Spesso gli attivisti egiziani mi hanno dato un’idea nella loro vicenda personale, di avere donato straordinaria importanza ad alcuni momenti, e di averne annullato tanti altri della rivoluzione. Di ricordare meglio episodi di dieci anni fa, rispetto a cose successe da poco, di aver sacrificato talmente tanto che il tempo della rivoluzione non è più quantificabile.  La rivoluzione è finita? No. La rivoluzione continua. 
Non so se tutti si rendano conto del fatto che in Egitto ci sono settantamila prigionieri politici. Quelle sono settantamila persone che hanno preferito stare in balia dell’arbitrarietà della classe politica egiziana e del potere militare  piuttosto che sparare ai propri concittadini. Pur di evitare la guerra civile. Questa è una scelta ed è un enorme sacrificio. In questa scelta c’è anche l’idea che si continui a lavorare nella diaspora, in attesa di un’altra generazione. La prossima Rivolta del pane non sarà fra due anni, ma verrà generata, secondo questo pensiero, dai fratelli e sorelle più piccoli, dai figli che riprenderanno da dove gli altri hanno lasciato. 

Canto la piazza elettrica è un libro che ha avuto una gestazione lunga, per tanti motivi, non solo quello della struttura.

Un altro ostacolo al completamento del libro è stato la terza parte, Eccidio, quella che esplora le tre grandi battaglie della rivoluzione. L’ultima, in particolare, la più tragica e orribile, l’eccidio a Rabaa della piazza occupata dai Fratelli Musulmani in protesta contro il colpo di stato a Morsi, dove l’esercito egiziano ha ucciso un migliaio di persone in pochissime ore. Più o meno lo stesso numero di morti di Piazza Tienanmen, ma in metà del tempo. E dovremmo davvero farci delle domande sul perché non venga celebrata in nessuna parte del mondo. Scrivere di quell’eccidio che io ho vissuto da remoto, ma in diretta, mi ha cambiata, ed è una parte che ancora adesso faccio fatica a riprendere in mano senza piangere.

Tu hai sentito da subito una forza che ti legava a questa rivoluzione? Aveva a che fare con il periodo che stavi attraversando o hai sempre cercato una dimensione comunitaria, un grande cambiamento, un grande momento storico a cui legarti?

Forse ho scritto questo libro per capire come mai ho permesso che un evento storico – per quanto importantissimo – dominasse la mia vita e ne cambiasse il corso.
Io credo che la rivoluzione egiziana abbia fatto capire a me, come a molti altri, cosa manca. La presenza di questa piazza, il suo manifestarsi in quei modi, quello che avrebbe voluto essere e che magari non è riuscita a essere. Essere di tutti, gratuita, e nello spazio pubblico è una tema che mette in crisi tutto il nostro modo di vivere. Mette in crisi la sostenibilità di come stiamo al mondo, delle nostre città, della giustizia sociale, della parità di genere, della non discriminazione religiosa, ma anche il modo in cui le città si manifestano architettonicamente, il fatto che tutto lo spazio pubblico delle nostre città sia completamente dedicato al commercio o legato a qualche tipo di consumo non è accettabile. Io sentivo questa crisi in modo intuitivo già da prima. Quando ho visto realizzarsi l’esperienza di Tahrir ho capito che stava arrivando un correttivo, qualcosa che ci costringeva a ritirare tutte le nostre riflessioni e che ce n’era molto bisogno. Dobbiamo mettere in discussione il sistema economico in cui viviamo, questo è evidente. 

Anche per fare i libri?

Anche per fare i libri.
In Canto la piazza elettrica racconto la presenza dei libri a Tahrir: come sono i libri a Tahrir? Sono usati, sbertucciati, a faccia in giù, con il dito per tenere il segno. Sono ovunque, sono libri di ogni genere, in tante lingue, è una specie di babele di oggetti maneggiati.
Noi ce l’abbiamo ancora quella cosa? Una volta in manifestazione si diceva: “Un altro mondo è possibile”. Lo hanno ripreso anche i Fridays for future. Ecco, io quando ho incontrato Tahrir non ero più tanto sicura che un altro mondo fosse possibile perché noi lo avevamo perduto, decisamente e una volta per tutte, a Genova.

Invece lì ho pensato: “No! Forse è possibile, ma stiamo guardando nei posti sbagliati”. 

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