I fratelli Dardenne e l’alienazione del soggetto marginale

Due giorni, una notte (titolo originale Deux jours, une nuit, 2014) è una storia di lavoro e di disagio sociale, compiuta espressione del cinema di Jean-Pierre e Luc Dardenne, ostile a ogni manierismo e ancorato alla realtà. La vicenda narrata è quella di Sandra, impiegata presso la Solwal, un’azienda di pannelli solari, madre di due figli e reduce da un periodo di acuta depressione, la quale subisce il ricatto proprio della razionalità economica che guida la società capitalistica. Durante il periodo di assenza dell’operaia, il lavoro necessario ai fini del profitto è stato svolto efficientemente dagli altri lavoratori: l’azienda impone dunque loro, scaricando la propria responsabilità, un aut-aut, la reintegrazione di Sandra o un bonus di mille euro ciascuno. Il “padrone”, il signor Dumont, esprime così i termini del ricatto: «La situazione finanziaria ci impone una scelta. Non si è mai trattato di altro». Juliette e Robert, colleghi della protagonista, insieme al marito Manu, convincono Sandra a battersi affinché la prima votazione referendaria venga annullata, in seguito alle pressioni esercitate sugli operai dal capo-reparto Jean-Marc in favore del bonus, e ne venga indetta una nuova, imparziale. Dumont, che incarna l’assoluta indifferenza padronale rispetto al destino dei lavoratori, accetta la proposta: Sandra è pertanto costretta a un umiliante porta a porta della durata di un weekend, il cui esito determinerà le sue sorti e soprattutto la perdita o meno della sua identità. L’utilizzo della camera a spalla e dei piani sequenza conferisce a ogni gesto, sospiro, esitazione o cedimento del soggetto inquadrato il potere di suggerire allo spettatore l’insostenibilità dell’impresa affrontata. Ogni incontro con i singoli operai è uguale e insieme diverso: gli impercettibili mutamenti nell’esposizione della richiesta da parte di Sandra di votare in suo favore costituiscono la prova della costante oscillazione tra pessimismo e ottimismo (simboleggiata dalla frenetica assunzione di Xanax), egoismo e solidarietà, che percorre l’intero film. Gli sforzi immani compiuti da Sandra per trattenere il pianto rivelano la paura paralizzante di perdere se stessa, di ricadere nel baratro dell’inesistenza sociale: «È come se non esistessi. Ma hanno ragione, non sono niente, proprio niente». Solo gli appelli del marito, volti a riconoscere la sfera dell’interiorità e del sentimento e a non ridurre l’esistenza al residuo cui è stata confinata dalla drammatica situazione economica, riconoscono a Sandra una soggettività non marginale: «Tu esisti Sandra, io ti amo». Il riconoscimento che Sandra esige è tuttavia un riconoscimento sociale: l’opera di André Gorz, filosofo francese il cui pensiero anti-economista, anti-utilitarista e anti-produttivista si articola nella critica radicale della logica capitalistica e nella rivendicazione del valore sociale della persona (rivendicazione coessenziale alla sua riflessione ecologica), evidenzia proprio la necessità, da parte del soggetto, di ottenere un ruolo determinante nella società attraverso l’esercizio delle proprie facoltà, dunque nel lavoro, al fine di ottenere in quanto diritto, e non gratuitamente, i privilegi autentici dell’interazione sociale e dell’appartenenza alla sfera pubblica[1]. Il salario è fonte di libertà, ma solo nella misura in cui è il prodotto di un lavoro dignitoso, non soggetto alle dinamiche di potere e ricattatorie di un capitalismo alienante.

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Porsi al servizio di un tale sistema, adattandosi ai ritmi produttivi imposti e cedendo alle sopraffazioni da questo implicate, e rifiutarsi di rivestire un ruolo al suo interno producono il medesimo effetto: incertezza, miseria, paura e marginalità. Questo il panorama che si evince da un confronto tra Due giorni, una notte e L’Enfant: una storia d’amore (titolo originale L’Enfant, 2005). Bruno, il protagonista del secondo film, è un ventenne che vive di furti, dorme in una baracca ai margini del fiume o nei dormitori comunali; la sua compagna, Sonia, ha appena dato alla luce il loro primo figlio, Jimmy. L’apparente leggerezza della vicenda, spesso inframmezzata dai teneri giochi tra i due amanti, nasconde una vera e propria odissea suburbana: Bruno è però l’anti-eroe, un “Accattone” moderno, un enfant nella sua inadeguatezza al mondo degli adulti. Egli si rifiuta categoricamente di lavorare, «è roba da coglioni», eppure ogni cosa è per lui oggetto di scambio: fa dunque ingenuamente propria la monetizzazione universale che costituisce il paradigma per eccellenza del capitalismo, dunque della società nella quale non vuole rivestire alcun ruolo. La colonizzazione di ogni aspetto del mondo vitale da parte del monocentrismo economico è giunta a tal punto che persino gli emarginati non conoscono altro riferimento: con i soldi ottenuti dai furti Bruno affitta un cabriolet. Non c’è alcuna utopia da realizzare, nessuna alterità cui aspirare: la vendita del neonato è solo un altro mezzo per assicurarsi una sterile sopravvivenza, «ne faremo un altro», ma anche l’inizio della reintegrazione di Bruno nella società. Dopo l’abbandono da parte di Sonia e dopo il fallimento di un tentativo di furto che lo costringe al confronto con l’autorità istituzionale, Bruno riconosce le proprie responsabilità; non c’è però alcun esito confortante, il ruolo cui è destinato un soggetto marginale è quello dell’emarginato per antonomasia, il carcerato.

La mancanza di una qualsiasi solidarietà sociale, anche operaia, produce pertanto gli stessi effetti, sia in coloro che permangono all’interno del paradigma riconosciuto, sia in coloro che ne sono esclusi: per tornare a Due giorni, una notte, così Sandra esprime il proprio stato d’animo dopo l’ennesimo estenuante incontro, «tutte le volte mi sento una mendicante, una ladra che va a prendere i loro soldi, mi sento sola»; una perfetta descrizione di Bruno.

Il contenuto pudore dei gesti, che si evince dallo splendido lavoro di regia, conferisce tuttavia a Sandra una dignità umana che appartiene solo ai più deboli: di fronte a colleghi che si negano al citofono, che preferiscono il bonus per «mobili, TV, letto, lavatrice, stoviglie», che invocano la depressione come fattore sufficiente alla sua esclusione dalla sfera pubblica e che reagiscono con violenza alla sua richiesta, l’estremo ritegno con il quale Sandra risponde provoca imbarazzo persino nei più disumanizzati, «mi vergogno», «mi angoscia dirti di no». L’equilibrio psichico della donna è però soggetto, comprensibilmente, a un continuo altalenare e l’istinto di protezione del marito (che spegne la radio quando viene trasmessa La nuit n’en finit plus di Petula Clark) la pone di fronte all’evidenza della percezione che gli altri hanno di lei: Sandra non è l’artefice del proprio destino, il controllo delle sue sorti non è nelle sue mani, e l’impotenza ha un effetto tanto destabilizzante da farle tentare il suicidio. Sul letto d’ospedale, sventata la tragedia, la sera prima del fatidico lunedì in cui avrà luogo la temuta votazione, riesce però a trovare la forza di affrontare l’ignoto, di affidarsi al conforto dei propri cari e di lottare strenuamente per esistere: «I tre che restano li vedremo stasera».

La votazione si conclude con otto voti a favore di Sandra e otto voti contrari; l’incontro con chi si è battuto con lei è toccante, senza scadere nell’edulcorato: «Grazie di avermi sostenuta. Non lo dimenticherò mai». Al momento di svuotare l’armadietto, Sandra viene convocata dal signor Dumont che, «per superare ogni rancore tra il personale», le offre di reintegrarla a partire dal mese di settembre, quando non rinnoverà un contratto a tempo determinato. Riacquistato il proprio orgoglio e la propria identità (simbolica la scena in cui la protagonista urla le parole di Gloria, dei Them), al di fuori dell’ambito lavorativo dal quale è stata esclusa, Sandra risoluta rifiuta: al telefono con il marito, queste le sue battute finali «sì, sarà difficile. Comincerò a cercare oggi. Sì a mezzogiorno. Sì, anch’io. A dopo. Manu? Ci sei? Ci siamo battuti bene. Sono felice. Sì anch’io».

La modesta eroina di questa moderna epica proletaria si dichiara felice, ma il riconoscimento sociale sperato non è arrivato, l’egoismo ha prevalso sulla solidarietà e il potere arbitrario del padrone non è stato vinto. Rimane dunque il dubbio che l’integrazione del lavoratore in questa società non sia effettiva e forse nemmeno auspicabile; con le parole di Militina, personaggio del film La classe operaia va in paradiso di Elio Petri (1971), «se vuoi diventare matto, credi a me, devi tornare in fabbrica. Io sono diventato matto in fabbrica».

[1] Per un approccio introduttivo all’opera dell’autore si consiglia la lettura di André Gorz, Métamorphoses du travail. Quête du sens. Critique de la raison économique, Éditions Galilée, Paris, 1988 (tr.it. di Stefano Musso, Metamorfosi del lavoro. Critica della ragione economica, Bollati Boringhieri, Torino, 1992).

Photocredit: Le immagini sono state  prese da www.movielicious.it; www.superiorpics.com; www.filmtv.it

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