Le Summer Houses alla Serpentine: architettura tra conforto e confronto

Ogni anno, in estate, la Serpentine Gallery dei giardini di Kensington inaugura un Pavilion esterno e temporaneo, affidato a un architetto o uno studio internazionale. L’anno scorso, in occasione dei quindici anni dell’iniziativa, è stato il duo spagnolo selgascano a realizzare il Pavilion: hanno dato vita a un percorso serpentinato di materiali e colori diversi, in cui i visitatori, a seconda dell’entrata scelta, si trovavano immersi in un ambiente differente da esplorare.

Desideravamo che il pubblico sperimentasse l’architettura semplicemente attraverso i suoi elementi: struttura, luce, trasparenza, ombre, leggerezza, forma, sensibilità, cambiamento, sorpresa, colori e materiali.
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Quest’anno, la Serpentine Gallery ha commissionato anche quattro Summer Houses che accompagnino il Pavilion principale, ognuna affidata a un architetto diverso, collocate vicino al Tempietto della Regina Carolina, edificato secondo lo stile delle summer houses inglesi, piccoli rifugi più o meno temporanei costruiti in genere nei parchi o nei giardini, come riparo dalla calura estiva. Le quattro proposte si confrontano direttamente con il modello, continuando però l’esplorazione dello spazio, tanto interno alla struttura quanto esterno e relativo al contesto e all’ambiente, anticipato dal Pavilion principale.

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Il Pavilion è a cura del Bjarke Ingels Group: si tratta di una struttura altissima e imponente, costituita principalmente da elementi rettangolari che richiamano nella forma il mattone, ma che sono invece realizzati in vetroresina. Il materiale e la cavità interna danno l’illusione di trasparenza e leggerezza, riuscendo comunque a restituire l’idea di una parete compatta. In particolar modo, la struttura si presenta in modo diverso a seconda del punto d’arrivo del visitatore: la parte nord−sud appare rettangolare e quasi trasparente, mentre  il lato est−ovest presenta una silhoutte ondulata e opaca. È quasi come se la manipolazione dello spazio avvenisse grazie agli occhi dei visitatori  e al loro camminare. L’effetto quello di una parete che si apre, rivelando una cavità interna dove essere accolti o sostare solo per qualche attimo: «l’apertura nel muro trasforma la linea in una superficie, il muro in uno spazio».

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in primo piano, la Summer House di Kunlé Ayademi. sullo sfondo, quella realizzata da Barkow Leibinger

Camminando dal Pavilion verso il Queen Caroline’s Temple, la prima a presentarsi ai nostri occhi è la Summer House del duo Barkow Leibinger,  che si ispira a un’altra opera realizzata da William Kent, l’architetto a cui viene attribuito il Temple. Si trattava di un piccolo pavilion posto in cima a una collina (scomparsa poi assieme all’opera) e rivolto verso il Long Water, che poteva ruotare interamente su se stesso per offrire una vista completa dei dintorni e, allo stesso tempo, mostrare un lato sempre diverso a chi si trovava a osservare l’opera dai giardini.

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La mancanza di una facciata ufficiale ha ispirato a Frank Barkow e a Regine Leibinger l’idea di una summer house di cui si potesse fare un’esperienza differente a seconda del punto d’arrivo del visitatore.  Il meccanismo di rotazione è restituito con la forma ondulata dell’intera struttura, che, nel loop che la costituisce e per il fatto di essere stata realizzata quasi solo in legno chiaro, dà l’idea di essersi quasi autogenerata lì, nel giardino stesso.

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La Summer House di Kunlé Adeyemi si posiziona direttamente di fronte al Queen Caroline’s Temple, palesando l’intento di confronto e dialogo: la forma robusta e la gestione degli spazi sono riproposti, ridotti però all’essenziale. Adeyemi ha voluto restituire lo scopo di una summer house, quello di offrire rifugio e riposo, creando una struttura che nelle forme esterne appaia resistente e duratura, ma che all’interno si apra in cavità morbide e accoglienti, che ripropongono gli elementi base di un’abitazione: una stanza, una finestra e un corridoio.

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Asif Khan ha invece analizzato il modo in cui la luce cade sul Queen Caroline’s Temple, costruito in modo che il 1° marzo 1683, compleanno della regina, il sole lo illuminasse frontalmente. La Summer House si basa sull’idea di una sala da tè in cui si entri con delicatezza, camminando su gradini a specchio che emergono dalla ghiaia chiara e uniforme. Le pareti, costituite da liste verticali bianche, sembrano quasi delle tapparelle che nascondono agli occhi di chi arriva da lontano l’interno, proteggendo la riservatezza e il riposo di chi vi si ferma, e che danno l’impressione di aprirsi all’avvicinarsi del nuovo arrivato.

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Yona Friedman ha invece creato una Summer House che ripropone le basi di una sua precedente opera, la Città Spaziale (il cui progetto si estende dal 1959, anno del Manifesto, in poi). Friedman auspicava la realizzazione di strutture che potessero svilupparsi in verticale in modo organico, quasi crescendo, in modo da ridurre lo spreco di terra, e che fossero componibili e personalizzabili da chi le avrebbe poi abitate. La Summer House è «uno spazio−catena», composto da 30 cubi che possono essere rimontati in modo sempre diverso e che ospita alcuni pannelli in policarbonato trasparente su cui sono riprodotti disegni e opere, trasformando un semplice rifugio in un piccolo museo riassemblabile.

Le fotografie in questo articolo sono di Francesca Corno. Tutti i virgolettati riportati sono traduzioni dal sito serpentinegalleries.org

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