Lettere o non Lettere

Il mondo degli studenti delle facoltà umanistiche è una zona di perenne autoriflessione. Si cerca costantemente una motivazione per andare avanti, sfidando le frecciatine del mondo esterno. Un mondo, insomma ,di sognatori pronti a flagellarsi, di persone considerate “tra le nuvole” che, tuttavia, si confrontano continuamente con la concretezza del mondo reale.

In questo mondo così incoerente, tra il miraggio e lo scetticismo, ha fatto scalpore un intervento proveniente da lontano. Sul supplemento domenicale del Sole 24 ore del 16 ottobre 2011, possiamo infatti trovare alcune considerazioni sulle facoltà umanistiche contenute in un articolo di Claudio Giunta che rileva le contraddizioni italiane in materia.
Giunta parte da un assunto pragmatico: le facoltà umanistiche offrono pochi sbocchi lavorativi, quindi dovrebbero essere in pochi ad iscriversi. Un’asserzione forse fin troppo semplice, che sicuramente, però, ricalca il pensiero di molti. Come mai allora il boom di studenti delle facoltà umanistiche? Giunta in parte supera il luogo comune della “facoltà facile” o cerca comunque di analizzarlo meno superficialmente. Le tre parti in causa considerate in questo articolo  sono lo Stato, i professori e, ovviamente, gli studenti.

Lo Stato, innanzitutto, vuole aumentare il numero di laureati per raggiungere la media europea. La politica scolastica ha trasformato radicalmente le scuole superiori: se prima erano concepite per immettere direttamente i diplomati nel mondo del lavoro, ora servono soltanto per preparare gli studenti all’università.
La posizione dei professori è chiara e può essere riassunta in questo modo: diminuendo drasticamente gli studenti, molti di loro perderebbero il posto di lavoro. Questo motivo fa capire perché spesso si tende a non bocciare chi lo meriterebbe.
Senza dimenticare la categoria degli studenti spiantati e poco capaci che confluiscono nelle facoltà umanistiche solo in virtù della loro etichetta del “più facili”. Il discorso può essere facilmente smontato: se già per uno studente in gamba sarà difficile trovare lavoro dopo essere uscito da Lettere, per uno studente del genere sarà quasi impossibile.

In realtà, la ricerca di un posto di lavoro sembra essere costantemente allontanata. Un certo fatalismo mediterraneo, come direbbe Tondelli, ci porta ad allontanare una situazione che ci procura angoscia. Lo stato di benessere porta a parcheggiarci in un ateneo ed aspettare che qualcosa succeda.
Molti studenti vengono a Lettere con un’istruzione molto leggera, provenendo da istituti tecnici, consci delle difficoltà che avranno per imparare nozioni che difficilmente serviranno materialmente per la loro vita. Ma la loro dedizione, la loro voglia di sapere, li porta comunque ad andare avanti, ad iscriversi a Filosofia senza sapere chi sia Hegel o a Lettere senza aver mai letto un verso della Divina Commedia.
Secondo Giunta, però, l’impegno non basta: il ritardo è tale da non poter permettere neanche allo studente più volenteroso di diventare un bravo studente o specialmente un bravo insegnante, e quindi l’università si trasforma quasi in un hobby lodevole, una terapia di vita.
Ma essi ci sono, e sono tanti, e il livello va plasmato sulla maggioranza, non su quella minoranza che esigerebbe da un insegnamento universitario un salto in avanti rispetto alla lezioncina liceale.

La proposta di Giunta è di inserire uno sbarramento proprio come nelle altre facoltà, un esame di ammissione che faccia entrare soltanto chi è pronto, e che permetta agli studenti che stanno più indietro di potersi ripreparare durante l’anno perso.

L’articolo ha scatenato le reazione più disparate sui vari forum di Lettere, tra cui quello dell’Alma Mater Studiorum.
Sono molti gli studenti concordi nell’inserire anche alle facoltà umanistiche un test di sbarramento. Il test servirebbe ad aumentare il livello dell’insegnamento, stabilendo una base comune di partenza da dove partire. Uno studente di medicina, preparandosi ai test, ha una base di chimica, fisica e biologia comune a tutti gli studenti che hanno passato l’esame di ammissione. Cosa ben diversa a Lettere, dove la convivenza tra i più svariati livelli di preparazione iniziale porta ad un cortocircuito.
Un numero circoscritto di ammessi, più pragmaticamente, porterebbe inoltre ad un maggiore chance di trovare posti di lavoro. E poi diciamolo: quanti letterati troverebbero nel test d’ammissione un riscatto sociale contro gli “odiati” medici ed ingegneri?
Ma guai a pensare che lo sbarramento sia la panacea di ogni male. Per molti, anzi, sono dei test fasulli, che non selezionano accuratamente le conoscenze. Migliore la scrematura che farà la realtà dopo qualche anno, quando bisognerà far fruttare il proprio pezzo di carta.

Proprio dura la vita dello studente di Lettere. Sottovalutato dalla società, ma costretto a sostenere la parte del tuttologo nei più svariati argomenti della cultura, dall’arte informale alla poesia francese del 1300. Secondo molti ciò che può veramente fare la differenza non è la difficoltà della facoltà in sé, ma l’uso che se ne fa: i collegamenti, gli approfondimenti, la sinergia di sapere. Alla faccia di chi pensa che Lettere sia una fucina di (pochi) insegnanti e (molti) disoccupati.

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