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Sono fame: intervista a Natalia Guerrieri

Correre. Per scappare a qualcosa che non sai bene nemmeno tu, per capire cosa raggiungere, per guadagnare dei soldi, per guadagnare più punti. Muoversi. Perché le possibilità sono sempre da un’altra parte, perché il progresso punta dritto avanti, perché il passato è scomodo, perché domani è meglio. Sacrificarsi. Perché mettersi da parte per il profitto degli altri è momentaneo alla fin fine, vero?

Specialmente dopo il Covid, durante il quale le grandi città sono sopravvissute grazie al delivery – e quindi nel mettere a repentaglio lavoratorə sottopagatə e spesso nemmeno contrattualizzatə – per generi alimentari e casalinghi, dopo il quale si è iniziato a fare i conti con il rapporto lavoro-vita privata, spese-tempo, sacrifici-guadagni – logica sulla quale si è fondata per anni l’attrattiva delle Capitali -, una storia come quella di cui parliamo oggi è essenziale più di uno specchio.

Sono fame (Pidgin Edizioni, 2022) è il secondo romanzo di Natalia Guerrieri e ha già fatto molta strada. Non solo perché Chiara, la protagonista, deve pedalare il più velocemente possibile per mantenere uno status accettabile nel proprio lavoro – è una rondine, una persona che si muove leggera ma senza protezioni per la città e si occupa di food delivery per l’azienda Envoyé – ma perché è stato selezionato per numerosi gruppi di lettura, è nella top venti della narrativa delle Classifiche di Qualità de L’indiscreto ed è entrato nella cinquina finalista della prima edizione del Premio Inge Feltrinelli.

Se vi sale la nausea leggendo questo libro, significa che Natalia Guerrieri ha fatto centro.
Il perché ve lo spieghiamo meglio parlandone direttamente con l’autrice.

Intervista a Natalia Guerrieri

Questo è il tuo secondo romanzo, e non assomiglia per niente al primo, se non per il nocciolo centrale: al cuore delle storie di Non muoiono le api e di Sono fame c’è lo sfruttamento del lavoro. Come mai scrivi di questo argomento?

Grazie per aver letto anche questo mio secondo romanzo e per avermi proposto un’intervista. Sì, i due libri sono molto diversi ma ci sono dei punti di contatto. Il tema del lavoro è sicuramente uno dei più evidenti, forse insieme a quello della tecnologia e delle relazioni. Un altro fattore che li accomuna è l’atmosfera, che è stata definita poco rassicurante.
Quando scrivo, parto sempre da qualcosa di non risolto, sia dentro di me che nel mondo che mi circonda. Non certo con la pretesa di risolvere questo qualcosa, ma con il bisogno di prendermi uno spazio, uno spazio lungo, quello di un romanzo, e anche il tempo necessario per guardare bene in faccia ciò che mi assilla. Il lavoro è un tema con cui sentivo di dovermi confrontare per la centralità che esso riveste nelle nostre vite, nella percezione della nostra identità, nella gestione del nostro tempo. La mia generazione, quella dei cosiddetti millennials, ha incontrato un mondo del lavoro che non si aspettava. Dopo una formazione fatta di lauree, corsi, master, stage retti dal mantra tossico di “se davvero lo vuoi ce la farai”, abbiamo trovato un disimpegno generalizzato sul piano contrattuale, il precariato, l’impossibilità di fare piani a lungo termine e un neoliberismo selvaggio che addossa al singolo la responsabilità del “fallimento”.

Il filosofo Byung-Chul Han descrive la nostra come una “società di prestazione” dove ognuno è imprenditore di se stesso e dietro all’illusione della libertà senza limiti trova in realtà un autosfruttamento senza limiti. Tutto ciò avviene nel contesto della cosiddetta rivoluzione digitale che, come scrive Roberto Ciccarelli, “[…] doveva garantire una maggiore autonomia alle persone, ma ha esteso il dominio esercitato in precedenza sui corpi al cervello, alla psiche e agli affetti.” Ciccarelli precisa, in più, che il dominio sui corpi e sulla forza lavoro non è nel frattempo terminato, ma che al contrario, “[…] l’automazione mette all’opera la forza lavoro ancora più intensamente, pagandola sempre meno.” Come parlare di tutto ciò attraverso la narrativa? Per me scrivere un romanzo non ha nulla a che vedere con il reportage e meno ancora con la cronaca compassionevole. In entrambi i miei libri è lasciato ampio spazio all’immaginazione; utilizzo i generi, cercando di sfruttarli liberandomi al contempo dalle etichette più rigide, per trovare uno scarto rispetto alla realtà, una metafora che mi permetta di andare oltre a ciò che vivo nel mondo reale.

Le menti dei tuoi personaggi sono come annebbiate: le azioni sono quasi robotiche, essenziali, ma anche i pensieri che sembrano muoverli sono ridotti all’osso. C’è un momento, nella prima parte del libro, che mi sembra parlante: Chiara, la protagonista, cerca su un blog un articolo di Hegel e si dice «O fa schifo o non riesco a capirlo. […] Mi sembra di perdere un pezzetto di ciò che sapevo, giorno dopo giorno, un pezzetto della mia testa». Non scrivi solo del dissolvimento delle ambizioni, ma soprattutto del proprio bagaglio culturale e della propria coscienza, perché non utile al capitale. Come una zavorra da lasciare per pedalare più veloce: com’è stato scrivere di una persona così cosciente di quello a cui va incontro, delle regole a cui deve sottostare?

Nel romanzo gli stili si alternano, così come i punti di vista, proprio perché volevo muovermi tra due poli opposti: alienazione e identità. Chiara oscilla tra il presente fatto di una velocità che le richiede ossa cave come quelle degli uccelli e un passato che è al contempo una zavorra e una radice. Mi sono interrogata a lungo su come scrivere il libro e alla fine ho creato questa sorta di tessitura tra stili, persone e tempi diversi. In alcuni momenti Chiara è cosciente ma, come giustamente dite, questa sua coscienza non fa comodo a Envoyé. Penso alla prima scena di Tempi moderni di Chaplin, al gregge di pecore che avanza a testa bassa alternato subito dopo con la scena della classe operaia che entra in fabbrica. Si tratta di un film del 1936 ma non posso che continuare a vederci molto del nostro presente, seppur con diverse e sostanziali differenze. Come dice Han, chi lavora oggi non si trova più in uno spazio controllato ma si controlla da sé, non ha coscienza di classe ma si sente solo contro tutti, viene spinto alla depressione in maniera che non possa ribellarsi. Oggi, in Paesi come l’Italia, chi lavora può trovarsi in “[…] condizioni impensabili, almeno nei paesi capitalistici, di deprivazioni materiali e marginalità assoluta […]”, come scrive Ciccarelli. A questo, prosegue, si aggiunge “l’invisibilizzazione” della forza lavoro che ci fa credere che essa sia scomparsa. L’alienazione di Chiara, lo scollamento dalla propria coscienza, è il prodotto di tutto questo.

Nella storia avvengono molti ritrovamenti di corpi, che sembrano quasi delle “tappe” che segnalano la distruzione del corpo di Chiara. Cosa accade al corpo, in questo mondo del lavoro che descrivi, e soprattutto: la semplice parola scritta è in grado di comunicarlo?

Proseguendo il ragionamento secondo il quale il lavoro esiste, al netto di tutti gli algoritmi e delle ideologie, ed è la base della nascita e di ogni interazione con la tecnologia, dobbiamo ritornare nell’ordine di idee che ci sono esseri umani che lavorano e che, per forza di cose, lo fanno con il loro corpo. Mi spaventa molto la narrazione della “smaterializzazione” del lavoro, mi sembra il preludio all’annientamento di diritti e tutele.
Il corpo è centrale nel libro, già il titolo parla di fame. Non volevo raccontare esattamente dei rider – si parla infatti di rondini – ma di tutte le categorie che possono ritrovarsi nella condizione che descrivo. Chiara corre su e giù per la famelica Capitale e lo fa con il suo corpo dolente, stanco, sudato, ferito, minacciato. Nel libro emerge costantemente il paradosso per il quale la protagonista è obbligata a lavorare per mezzo del proprio corpo ma questo corpo non viene mai preso in considerazione da Envoyé, che lo vede come un immateriale pallino su una mappa. Non so se la semplice parola scritta sia in grado di comunicare tutto questo. Tuttavia, durante la promozione del libro, diverse persone mi hanno voluto raccontare in cosa e perché si erano riconosciuti in questa storia. Credo che la parola scritta “si attivi” e si riempia dei significati che l’esperienza, la vita, i ricordi di chi legge, le attribuiscono.

Sono fame è un libro in cui l’annientamento dei desideri domina: mangiare è una parte della catena produttiva, il sesso qualcosa di cui diffidare, la ricerca della luce impossibile tra muri troppo vicini e smog costante. Cosa rimane ai tuoi personaggi, quindi? Cosa li muove? Per cosa vivono?

Penso che l’idea su cui si regge tutta la narrazione tossica dell’autosfruttamento, per riprendere Han, è che ci sia una grossa torta con la panna che ci aspetta alla fine: realizzazione, successo, denaro, potere, eccetera. Spero di non risultare troppo pessimistica, non era questo il mio intento. Al contrario, anche se il libro è piuttosto crudo, volevo inserire una speranza. Non ho scritto un lieto fine calato dall’alto ma ho cercato di suggerire l’esistenza della possibilità di dire dei no e di incamminarsi lungo una strada diversa, anche se ovviamente non è facile.

Un’altra cosa che abbiamo trovato vicina al tuo esordio è stato l’ambiente. In Non muoiono le api si tratta di un futuro distopico, in Sono fame siamo in una città generica, la Capitale, che potrebbe esistere oggi come tra mille anni. In tutti e due i casi l’ambiente è estremamente aggressivo nei confronti dei personaggi, che oltre a muoversi in modo forsennato, quasi come dei criceti su una ruota, sono osteggiati dal clima, dall’architettura, da ogni cosa che li circonda. Senti di aver riportato qualcosa del reale in cui viviamo, creando questi ambienti?

Parlando del mondo in cui viviamo oggi non potevo che descrivere una Terra resa ostile dalle dinamiche insostenibili e distruttive di cui ho parlato fin qui. Questo è del resto anche il modo in cui percepisco l’ambiente attorno a me. Ciò che mi domando è: andando a ricercare le cause di questa situazione, ovvero l’imperativo della costante crescita economica, c’è la possibilità di cambiare rotta? Mi spaventa la depressa rassegnazione che può fare seguito alla consapevolezza. Shoshana Zuboff è a mio parere illuminante quando parla di “ideologia inevitabilista” come mantra che non solo approva ma costituisce “un cavallo di Troia per certi potenti imperativi economici”, azzerando l’eventualità di una critica democratica. Le condizioni dell’ambiente che descrivo nel libro non sono per me caratteristiche “inevitabili” ma, al contrario, conseguenze specifiche di scelte specifiche. Ancora una volta, a mio modo lascio aperto uno spiraglio per immaginare qualcosa di diverso.

Un tema – un problema – che tocca da vicino la nostra generazione è quello della casa, dell’abitare. Lo rappresenti nelle condizioni in cui è costretta a stare Chiara – in cui anche una vittoria come riprendersi lo spazio che paga ha un sapore davvero amaro – ma anche attraverso le case e i palazzi che visita per le consegne, quella da cui viene. Cosa succede quando la casa non è più un ambiente sicuro ma un luogo in cui si è in pericolo?

La mobilità di quelle che vengono definite “popolazioni temporanee” può acuire, in un sistema di riconversione delle case di proprietà, le disuguaglianze sociali. I proprietari parcellizzano gli appartamenti in maniera da poterli affittare a più inquilini e ottenere così una rendita più alta. Gli ambienti di vita diventano di conseguenza angusti e sovraffollati. Determinati quartieri, nelle città, iniziano a cambiare volto. Ancora una volta, se la Capitale è cannibale come quella del mio libro e quindi l’unica legge è quella della prevaricazione l’abitante non è altro che una fonte di reddito e abitare diventa una lotta alla sopravvivenza. Lo spazio in cui Chiara si sistema non è nemmeno una stanza ma piuttosto uno “sgabuzzino”, probabilmente utilizzato un tempo per riporre le scope. È qui, nello spazio della casa, che le si pongono davanti le prime scelte da compiere, nella dicotomia tra predatrice e preda, per iniziare la sua nuova vita nella capitale. È sempre qui, tuttavia, che a un certo punto si intravede una possibilità di ritrovata umanità. Il passaggio anonimo degli inquilini può non essere più anonimo e lasciare delle tracce, come la pianta carnivora, creare dei legami. Chiara si rende conto di non volere un futuro stipato nello sgabuzzino, tra la polvere e libri che giorno dopo giorno dimentica. La stanza angusta è simile al suo corpo, sempre più denutrito. Anche in questo caso è solo cambiando prospettiva che si possono fare le valigie e partire (o ritornare) verso qualcosa di diverso

Grazie Natalia – e buon volo (libero, questa volta) a Sono Fame.

Maria Gaia Belli e Francesca Corno

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