Natalia Guerrieri Non muoiono le api Tropismi Intervista

Quanta paura abbiamo di perdere tutto? – Intervista a Natalia Guerrieri

Immaginate qualcuno tanto sciocco da nascondere tutte le sue cose preziose in un’unica scatola. Un giorno i ladri entrano in casa, oppure la stanza si allaga, o semplicemente la scatola cade durante un trasloco. Tutto va perso in una sola volta. I preziosi spariti: oro, soldi e ricordi.

Questa persona così sciocca siamo noi. O comunque, stiamo riempiendo velocemente la scatola, tanto che è difficile spesso farci stare tutto – e non ci piace, quando qualcosa non c’entra, e cade fuori dai confini del controllo digitale con cui esercitiamo la maggior parte delle funzioni importanti della nostra vita. Il problema nell’assunzione “tutto sta diventando digitale” non è il digitale. È il tutto, che spaventa.
Cosa faremo il giorno in cui entreranno i ladri, o si allagherà la stanza, o qualcuno inciamperà su uno spinotto?

Siamo in grado di ammettere quanta paura abbiamo, davvero, di perdere tutto?

Una delle prerogative della fantascienza è quella di prendere le nostre paure realistiche e raccontare su di esse una storia tanto vera da sembrare ambientata nel presente.

Ursula K. Le Guin, nell’Introduzione all’edizione 1976 de La mano oscura delle tenebre, scriveva:

«La fantascienza non è un pronostico, ma una descrizione. Le predizioni vengono fatte dai profeti (senza compenso); dai chiaroveggenti (che di solito chiedono un compenso, e godono di maggiori onori dei profeti, durante la loro vita); e dai futurologi (stipendiati). Predire è compito dei profeti, chiaroveggenti e futurologi. Non è compito dei romanzieri. Il compito dei romanzieri è dire menzogne. […] Non vi consiglio di rivolgervi agli scrittori di fantascienza per avere un’informazione del genere. Non è affar loro. Tutto ciò che cercano di fare è dirvi come sono e come siete, che cosa succede, com’è il tempo adesso, oggi, in questo momento, sole pioggia, guardate! Aprite gli occhi. Ascoltate, ascoltate. Ecco cosa dice lo scrittore di romanzi. Ma non vi dice che cosa vedrete e sentirete. Tutto ciò che possono dirvi è ciò che hanno visto e sentito, nella loro permanenza nel mondo, un terzo della quale hanno passato a dormire e sognare, e un altro terzo a dire menzogne.»

Natalia Guerrieri, Non muoiono le api, Moscabianca 2021.

Questa estate ho letto Non muoiono le api, romanzo d’esordio di Natalia Guerrieri (Moscabianca, 2021), e ho visto la paura vera. La stessa paura che mi fa la mummia ghiacciata che si avvicina a Ben, su It di Stephen King, l’ho trovata in un libro che si presenta come distopico. Eppure la paura, come tutte le emozioni reali, non si trova in un genere letterario preciso. È solo in quelle narrazioni che, per quanto chiaramente inventate, riescono nell’intento di materializzare i demoni veri: le disparità sociali, la normalizzazione dello schiavismo, la perdita della memoria storica.

La paura è forse il nucleo tematico di Non muoiono le api, che mette in campo molti personaggi e ben tre narratori. In un futuro-ma-non-tanto vivono Andrea, una bambina di cinque anni, sua madre Anna, suo padre e sua nonna Rosa. Poi c’è Leonard, un giovane giornalista, e Kaleb, il suo compagno. Il mondo in cui vivono è quasi totalmente dematerializzato, e basa la propria organizzazione su Nuvola – letteralmente il cloud definitivo, quello dei nostri sogni.

Tutte queste persone vivono nella stessa città, eppure riescono a passare la maggior parte della storia in nuclei separati, chiusi ognuno nel proprio terrore individuale (del contagio, della povertà, della perdita dei cari).

C’è un fuori e un dentro, in questo futuro, e il dentro non fa che stringersi intorno agli individui, limitando sempre di più le loro reali connessioni e smembrando la comunità.

«Prima di tutto questo, eravamo certi che il nemico fosse “esterno”. Esterno alle nostre città, al nostro territorio, alle nostre case. E dall’esterno ci aspettavamo che sarebbe arrivato, se mai si fosse verificato un attacco.
Allo stesso modo, eravamo certi che Nuvola fosse indistruttibile, onnipresente, eterna. E che qualsiasi cosa sarebbe successa avremmo sempre potuto fare affidamento su di essa.
Invece il nemico ci ha colpiti dall’interno, dalle nostre case, dai nostri phone, da ciò che era più intimo e vicino, che consideravamo nostro e al nostro servizio. E ha utilizzato Nuvola per farlo.»
[Non muoiono le api, p. 246]

Il crollo del mondo conosciuto, digitale e fisico, mette davanti a una scelta: restare dentro e morire soli, o seguire una Luce.

Le Luci sono l’elemento fantastico del romanzo, che appaiono e scompaiono a loro piacimento. Si può dire che aiutano chi vogliono, o chi lo desidera davvero, come nelle fiabe antiche. Vengono infatti da qualcosa di antico, e lì intendono riportarci: a una memoria perduta.

Non muoiono le api non è un libro profetico, è un libro deittico. Ci indica in modo neutro le nostre paure, cosa stiamo facendo con esse, e dove la paura ci sta portando.

L’autrice che accettato di rispondere qui ad alcune delle mie domande, ma come tutti i buoni romanzi, questo è uno di quelli che dà più interrogativi che risposte.

Non muoiono le api può essere inquadrato nel genere della distopia, ma con una nota: un mondo (di poco) futuro al nostro, con la presenza di elementi soprannaturali. Sia la storia che il mondo narrati nel tuo romanzo sono realtà molto vicine alla nostra, e il fantastico vi entra quasi con naturalezza. Da dove nasce e come si è sviluppata l’idea? Il fantastico era già presente alla genesi dell’opera, o è arrivato dopo?

Grazie innanzitutto a te e a Tropismi per questo spazio dedicato al romanzo. L’idea è nata nel 2016 e nella sua forma embrionale consisteva in una situazione: una bambina e un’anziana in uno stato di clausura, di costrizione. Mi interessava il fatto che entrambe avessero delle limitazioni, a partire dai loro corpi per arrivare alla fisicità dello spazio in cui erano inserite. La bambina non era autosufficiente per via dei suoi soli cinque anni e la donna anziana a causa dell’età e della malattia. Era l’anno successivo agli attacchi terroristici del 2015, che hanno cambiato la nostra percezione dello spazio e dei confini, almeno in Europa. L’illusione di sicurezza e controllo era crollata. Credo che l’idea di “chiudersi in casa” sia scaturita in primo luogo da questa consapevolezza. Dopo Andrea e Rosa, è nata Anna e infine Leonard; le loro identità sono maturate a mano a mano che la storia andava definendosi.

L’elemento fantastico c’è sempre stato. Era ciò che poteva “portare fuori dalla clausura” Andrea, era la connessione fra lei e il mondo esterno. Chi legge il libro scopre che questa connessione non si ferma alla realtà della città di M e del paese, ma va oltre. Per me, è il cuore del libro.

La storia è narrata da diverse voci, che parlano in prima persona: una bambina, una madre, un giornalista. Come hai gestito la costruzione di questa struttura narrativa, che cambia spesso punto di vista?

Mi è venuto spontaneo costruire il romanzo in questo modo. Forse per me è più faticoso attenermi a un punto di vista unico, piuttosto che cercare di sondarne diversi. Mi piace scrivere cose “diverse” in maniera “diversa”, le tre voci, con i loro linguaggi, stili e ritmi differenti, mi hanno aiutata a divertirmi mentre scrivevo. Allo stesso tempo, dato che il libro parla di narrazione della Storia e di più storie, di testimonianze e scrittura, spero che questa impostazione aiuti forma e contenuto ad andare di pari passo.

Sei d’accordo nell’inserire Non muoiono le api nello scaffale della distopia? O forse – per i più pessimisti – è piuttosto un lucido trailer di cosa ci aspetta nel brevissimo futuro?

Mi interessa molto la questione dei generi e ancora più quella della loro ibridazione. Nicoletta Vallorani afferma che la science fiction oggi è un “territorio comanche”, dove possono incontrarsi generi differenti, pur senza rinunciare del tutto alla mimesi. Ciò la rende estremamente fertile, adatta a ospitare nuove possibilità di invenzione.[1] Come giustamente dici tu, si fa fatica a incasellare Non muoiono le api: nel libro si mescolano fantascienza, distopia, fantastico, paranormale ma allo stesso tempo ho attinto dal reale, dalla mia percezione dell’inconscio collettivo. Del resto, la fantascienza ha sempre avuto a che fare con il problema della sua difficile definizione e questo per me è un vantaggio, significa che le possibilità espressive si moltiplicano.

Riguardo alla vicinanza con il presente, per me scrivere significa interpretare il reale, restituirne una visione. Con questo non intendo dire che il romanzo debba essere una cronaca o un reportage, al contrario penso che gli strumenti della scrittura permettano di andare anche oltre la mimesi per raccontare quello che c’è “dentro, dietro, al di là” di ciò che ci appare davanti.

Prima della pandemia c’è stato un moltiplicarsi delle distopie e secondo me è superficiale dire che si è trattato di una semplice “moda”. Se scrivere significa filtrare ciò che accade nel mondo, secondo me è interessante osservare come le autrici e gli autori abbiano captato “qualcosa che era nell’aria”. Possiamo chiamare questo qualcosa inquietudine, presentimento, paura… non importa. Da queste opere emergevano ipotesi di un futuro prossimo cupo e inquieto, dominato da forze incontrollabili.

La science fiction ha spesso assunto il compito di interrogarsi in particolar modo sul rapporto tra l’umanità e ciò che ne provoca una continua trasformazione, con un occhio di riguardo per l’impatto della tecnologia sulla natura umana. C’è quindi sempre un rapporto di scambio attivo e costante tra la s.f. e il presente. In aggiunta alla mia esperienza personale e al riverbero di quella collettiva nella mia percezione, per me è stato di particolare ispirazione Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri di Shoshana Zuboff, uno studio lucido e approfondito sui fattori che maggiormente impattano sul nostro mondo.

Il tuo romanzo mette in scena lo sfruttamento, umano animale e ambientale, in modo chiarissimo. Tuttavia, come spesso anche noi, i personaggi non si rendono pienamente conto della catena in cui sono impiegati. Speri che il lettore, guardando questa realtà da un punto di vista esterno, ne sviluppi uno nuovo sulla propria?

Attraverso le storie, la nostra esperienza si amplifica, siamo noi e siamo qui ma siamo anche altre persone che stanno altrove. Attraverso l’emozione e l’empatia, ancora prima che attraverso la razionalità, a mio parere, chi legge può sentirsi parte di situazioni che la o lo riguardano molto da vicino. In questo senso quindi sì, pur rimanendo lontana dal voler insegnare o “far riflettere” spero che chi legge viva per qualche istante la nostalgia degli animali estinti, la meraviglia per un’ape che vola, l’insofferenza per un caldo atroce da cui non ci si può difendere, che soffra pensando al tempo trascorso dall’ultima volta in cui ha visto la neve.

La carta stampata ha un ruolo centrale, quasi metanarrativo: è uno degli elementi più importanti del filone principale. Eppure, come vedremo, è molto difficile che la carta stampata sopravviva in un mondo privato dell’impostazione borghese. Nel tuo romanzo la stampa assume un forte valore di resistenza contro autoritarismo e violenza. Che valore assume, per te, l’oralità?

Il supporto stampato e l’oralità sono collegate nel libro in quanto rappresentano forme “altre” di preservazione dei contenuti, della memoria, della Storia e dell’esperienza – individuale e collettiva. Nelle cittadelle si esercita l’autonomia di pensiero, sono utilizzati diversi tipi di supporto in maniera non gerarchizzata, mentre al di fuori di esse l’economia ha stabilito il primato del digitale su tutto il resto.

Come accennavo sopra, nella tua storia c’è un elemento fantastico, le cosiddette “Luci”. Le Luci hanno un ruolo importantissimo in una storia di impostazione realistica. C’è qualcosa che esiste nel nostro mondo che può aiutarci come le Luci aiutano i tuoi personaggi?

Sì, le Luci sono forse l’elemento che nel worldbuilding maggiormente si distacca dalla verosimiglianza.

Tuttavia, nel libro si suggerisce che esse esistano, che siano sempre esistite e che sempre esisteranno. Mi piacerebbe che ogni persona che legge desse alle Luci una sua personale forma e immagine. Per me rappresentano qualcosa di specifico ma possono riempirsi di valori e significati diversi dato che la magia della lettura è proprio quella di poter partecipare alla costruzione di ciò che si legge attraverso la propria immaginazione e sensibilità. Per questa ragione preferisco non indicare espressamente cosa esse possono diventare nel nostro mondo. Andrea però mi suggerisce di scriverti che nelle luci “ha visto Anna e tutti gli altri, che sono qui anche se non ci sono.” Questo, almeno, è il suo punto di vista.


[1] Anna Pasolini e Nicoletta Vallorani, Corpi magici. Scritture incarnate dal fantastico alla fantascienza, Mimesis, Milano, 2020 p. 105.

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