Mentre tutto cambia

Trasformare il rimosso. Intervista a Fabio Guarnaccia su Mentre tutto cambia

Quattro amici di quattordici anni, che vivono l’ansia e le paure del diventare grandi e di uscire dalla loro tana, quella che li accoglie ogni giorno. Una Milano irriconoscibile, fuori dagli schemi, città matrigna che si attacca alla pelle come una piaga, dove gli odori, il paesaggio, la vita che scorre sembrano gli estremi di una condanna pronunciata chissà dove. Un’estate di fine anni ’80, quella che cambierà tutto. E la morte di uno sconosciuto che si incolla addosso alle loro vite, eterna presenza nell’immaginario.

Questi gli ingredienti di Mentre tutto cambia, l’ultimo romanzo di Fabio Guarnaccia per Manni, che ci fa vivere le avventure di Vela, Paolino, il Best e Ivan, quattro ragazzi che vivono tra Gorla e Precotto, in piena periferia, in quel rifugio che rappresenta casa e appartenenza ma che diventa subito trauma: la morte di un tossico, finito chissà come nel rifugio che Vela e gli altri avevano costruito per l’ultima, fatale siringa cambia le loro vite e li costringe a fare i conti con un mondo più grande di loro, fatto di morte, sopraffazione, sensi di colpa, di corpi che cambiano e si scontrano.

Guarnaccia ci accompagna in un viaggio nella memoria dentro le pieghe dell’adolescenza, rovista con intensità e calore in quei silenzi che ne sono parte fondativa, insieme pudore e postura obbligata per trovare il proprio posto nella società.

Ne parliamo con l’autore che ringraziamo per l’intervista.

Come nasce Mentre tutto cambia?

Nasce da molto prima che iniziassi a scriverlo nel 2016. C’erano diversi ami a cui ero rimasto agganciato, cose legate alla mia esperienza diretta che non avevo messo a fuoco e che non mi toglievo di torno. Un amico morto che eravamo ancora ragazzini, un pezzo di adolescenza trascorsa in un’area abbandonata di Milano, la voglia di trasformare un rimosso in un ricordo che avesse senso. L’unico modo sensato che avessi a disposizione era il romanzo. Certe cose credo che solo la finzione ti permetta di metterle in campo in tutta la loro forza, che va oltre il ricordo e la rielaborazione puntuale. Avevo poi voglia di stare dentro i confini di una storia semplice, circoscritta.

La cosa che mi ha più colpito del tuo romanzo è Milano. Una città completamente diversa da quella che ci hanno raccontato: alla Milano da bere si contrappone una Milano periferica, abbandonata, condannata, pregna di odori e di personaggi atipici, sui bordi. Cosa resta di questa Milano oggi, e quali sono le differenze con gli anni ’80 in cui è ambientato il tuo libro?

Di quella Milano oggi resta poco, per quella pulsione che la città ha di divorare sé stessa per darsi il nutrimento di cui ha bisogno. Tutto è sempre in perenne trasformazione, ciò che era periferia ora è centro o risente l’influenza di un centro. Per dire, la distanza che c’è tra Porta Venezia e Nolo si fatica a misurare. Il prezzo degli affitti parla chiaro. Per certi versi la periferia ha smesso quasi di esistere, per quanto la retorica di importazione del ghetto (penso ai codici trap e rap), che racconta questa lontananza, sia oggi molto diffusa. Mi sembra stia venendo meno anche la distanza tra le periferie del mondo e i centri metropolitani più evoluti. Molte delle cose oggi accadono online, le mode e i consumi viaggiano lì su scala globale per cui l’isolamento della periferia o della provincia, che spesso è un isolamento culturale oltre che esistenziale, si avverte di meno. Ma ancora nel 1989 questa distanza esisteva, non era geografica ma mentale. Milano era lì, ma era un’altra cosa. I protagonisti del romanzo non ne sentono davvero il bisogno. Il quartiere-isola contiene tutto quello di cui hanno bisogno. In centro ci vanno di rado come per prendere le misure alla città. Le vetrine dei negozi simbolo di un’epoca e una certa Milano. La osservano come si può guardare un animale feroce che dorme.  

Mentre tutto cambia, lo abbiamo detto, è ambientato verso la fine degli anni ’80. Lo ritroviamo nel Caballero e nella golf GTI, nelle riunioni politiche del padre di Vela, nei modi di dire. Tu sei nato nel 1975, potresti essere un coetaneo dei personaggi di questo romanzo. Che periodo è stato, quello, per un adolescente? E quanto c’è di vero nei patinatissimi anni ’80 che abbiamo visto in TV e che ancora celebriamo?

Intanto direi che il 1989 è già proiettato negli anni ’90. Loro sono ragazzini portatori di una nuova sensibilità, che non è più quella del decennio che sta finendo. Non a caso passano la maggior parte del tempo in una discarica, in mezzo a cose vecchie, persino a ideologie e mode vecchie, mentre loro sono cose orgogliosamente ma inconsapevolmente nuove.

Per quanto riguarda me, devo dire che faccio fatica a riconoscere gli anni Ottanta nel modo in cui sono stati codificati. Quando sento parlare degli anni Ottanta devo fare uno sforzo d’immaginazione come se dovessi visualizzare un decennio nel quale non ero presente. In fondo, credo, un decennio è fatto giorno dopo giorno col sangue di chi lo vive senza averne contezza.

Però senz’altro mi riconosco nel legame forte con l’immaginario pop di quegli anni. Con la musica elettronica, la tv, il cinema high concept alla Spielberg e a come tutto questo abbia influenzato la nostra percezione della realtà. Per cui nel tessuto urbano in disfacimento nel quale vivevo ci proiettavo sopra molte più cose e sapori di quanti la sola città adulta potesse concepire. Stava cambiando tutto per davvero, sia a livello di immaginario sia nella realtà sociale. I nostri genitori lavoravano e noi godevamo di una libertà incredibile. Una quantità di tempo vuoto e fuori controllo che abbiamo riempito in qualche modo. Per certi versi era una situazione di passaggio in cui stavamo in giro nel quartiere come se fossimo in un contesto pre-industriale, circondati però dalle fabbriche dismesse e dai tossici. C’era comunque la sensazione che tutto fosse possibile, un’idea di progresso sconfinata. Il mito del Nuovo.

Comunque, più che la paccottiglia pop anni ‘80, mi interessava tornare all’adolescenza di chi ha vissuto e fatto, in concreto, quegli anni. O meglio, di chi vi si è affacciato per la prima volta e costruito in quel momento la sua identità. Per cui senz’altro vi è un utilizzo dell’immaginario di quel decennio ma, come dire, è usato dal dato esistenziale e non lo sovrasta. Mi sembra che oggi nelle narrazioni su quegli anni accada esattamente il contrario. Che è un altro aspetto tipico se vuoi della generazione di quelli nati tra la seconda metà degli anni Settanta e i primi anni Ottanta. Usare la cultura pop per parlare di sé. Io ho tentato un’altra strada.

Presenza fantasmatica e insieme vivida è quella del Troisi, il tossico che i protagonisti trovano nel loro rifugio e che riescono a trascinare poco lontano, con il terrore di essere scoperti e la puzza di cadavere che pervade le loro vite. Con la recente uscita di SanPa molti sembrano aver ripreso contatto con un rimosso collettivo. A quasi trent’anni di distanza, cosa ci racconta la memoria dell’eroina, delle comunità di recupero, dei tossici?

Il Troisi è un simbolo del rimosso, di ciò che non solo si fatica a dire ma persino a vedere. Direi che per l’eroina è un po’ la stessa cosa, tanto è vero che ormai da anni è tornata a circolare senza che nessuno se ne sia reso conto. Per quanto riguarda la sua presenza nel mio romanzo, ho voluto raccontarla per come è stata vissuta dai ragazzini di quegli anni. Troppo piccoli per esserne vittima e troppo grandi per non averci a che fare. Era il fratello maggiore di un tuo amico, il tipo che fino a pochi mesi prima palleggiava come un fenomeno al campetto e che poi trovavi sul marciapiede davanti a scuola completamente fatto, erano le siringhe infilzate come freccette sui trochi degli alberi. L’uomo nero agitato dai genitori, il rimando all’altro glaciale spettro: quello dell’AIDS, che ha fortemente condizionato il nostro primo contatto col sesso. Presente? I fumetti informativi di Lupo Alberto distribuiti a scuola e l’alone viola della campagna tv sulle note di O Superman di Laurie Anderson (motivo di attrazione e repulsione). Per quanto riguarda il Troisi credo che non avrei saputo dire di un rimosso in un altro modo. Come in tutti i simboli si sommano al suo interno tante cose, la densità è alta. Ciò che non è stato digerito, le emozioni eccessivamente soverchianti, ciò che è stato sentito ma non capito, tutto questo è stato sepolto sotto quella montagnola di rifiuti insieme al Troisi, il ragazzo morto di overdose, e lì è rimasto per trent’anni finché non è stato riesumato, liberando tutta l’energia che ancora conservava. Il romanzo di fatto è questo, fare i conti con questa energia per liberarla e liberarsene. Per questo credo che non sia un vero romanzo di formazione, è più il romanzo di un uomo adulto che fa i conti con i suoi rimossi. Questa è la ragione per cui non c’è l’atmosfera scanzonata degli anni ’80, non c’è un uso massiccio di quell’immaginario che oggi costituisce per molti mito, non c’è, quindi, nostalgia ma malinconia e un’atmosfera riflessiva, cupa, un certo timore innervato da un coraggio risoluto (e un poco disperato).

Il tuo romanzo si chiama Mentre tutto cambia, e racconta l’estate che segna un prima e un dopo per il protagonista, Vela: cambiano i punti di riferimento, c’è un’evoluzione o un’involuzione con il gruppo storico di amici e nel rapporto con il padre. Ci sono le prime esperienze amorose, il primo contatto con la morte, le prime violenze. Vela non può che tornare continuamente a quei momenti, ma senza nostalgia o rimpianto. La sensazione è che subisca passivamente il destino, ciò che accade intorno, l’influenza delle persone vicine. Credi che sia un po’ questa la condizione dell’adolescenza? E perché non possiamo che tornare sempre là?

Non lo so con certezza, ma credo ci sia del vero in questa dinamica che descrivi. Dodici anni, o giù di lì, è l’età in cui nelle culture primitive smetti di essere un bambino ed entri nella comunità. È un passaggio doloroso e drammatico. Solo, nella foresta, lontano dal villaggio con quel poco che sai e tutto quel mistero spaventoso in cui ti trovi. Ti muovi a vista, da solo, con il solo conforto di chi è nella tua stessa situazione e poco ne capisce come te. In qualche modo ne esci vivo e trovi il tuo posto, ma quello che è successo in quei frangenti è una questione privata che molto spesso dimentichi, non digerisci del tutto e finisci per ignorare, come atto di protezione verso te stesso, finché qualcosa o qualcuno, anche solo una storia, non riporta in vita quelle emozioni. Per questo non possiamo che tornare sempre là.

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