I sogni sono desideri, ma per realizzarli non basta la magia

Mi ricordo che quello della scelta della scuola superiore da frequentare è stato un momento difficile della mia vita. Avevo sempre desiderato fare il liceo classico perché ero innamorata della letteratura, gli insegnanti continuavano a ripetermi quanto fossi portata per le materie umanistiche. Mia madre, invece, insisteva per quello scientifico: “è più completo”, diceva.

Alla fine – naturalmente – vinse lei e mi sono ritrovata a fare i conti con la matematica in cui più gli anni passavano, più mi rivelavo una capra. Chi lo avrebbe mai detto che un giorno mi sarei ritrovata a gestire budget con un attacco di panico ogni volta che i conti non tornano su quello che definisco da anni il mio acerrimo nemico: Excel.

Il libro di Sara Canfailla e Jolanda Di Virgilio, Non è questo che sognavo da bambina (Garzanti), parla di questo: di come la vita possa portarci lontano da quello che sognavamo e di come la nostra capacità di adattamento intervenga per non farci impazzire. 

Anche se poi impazziamo ugualmente.

La storia è quella che moltə di noi conoscono: Ida, la protagonista, ha studiato – seguendo i suoi sogni al contrario di me – in una scuola di cinema, ma si trova ad accettare uno stage in un’agenzia di comunicazione. 

Uno stage che – chetelodicoaffa! – si rivela da subito un vero e proprio lavoro e che la porta a combattere con grafici, indagini di mercato, copy e report: niente di più lontano da quello che ha studiato, da tutte le sue ambizioni. Dopo un iniziale sbigottimento, Ida lo accetta: ora è un’adulta con l’affitto da pagare, ma soprattutto con il bisogno di inquadrarsi in un ruolo che la definisca.

Un lavoro. Forse è questo che significa diventare adulti. Ti siedi qui, lo accetti. Non farai quello che avresti voluto fare, non sarai quello che avresti voluto essere. Ma sarai qualcuno.

Un lavoro soffocante e frustrante diventa così ragione di vita, campo in cui dimostrare la propria adeguatezza, guerra da vincere contro il fallimento, vasca da riempire con l’approvazione.

Ida lascia alle sue spalle il mondo libero dell’infanzia, quello della creatività, per entrare nello spazio ristretto dell’universo adulto, dove si vive schiacciati dalle definizioni, dagli obiettivi non raggiunti, dal tempo che uccide le possibilità. Ovviamente – Thank God! – non è sempre così, ma spesso oggi avvertiamo nella parola possibilità un sentore di angoscia. La possibilità è infatti l’apertura a nuove strade, ma il restringersi di queste può diventare qualcosa con cui è difficile fare i conti.

“La vita di ognuno di noi è un imbuto” ha continuato lui, come se le stesse svelando un segreto. “ Quando sei giovane ti trovi nella parte alta, e puoi muoverti dove vuoi. Hai tutte le strade davanti… più cresci e scendi giù, più le strade diminuiscono, e il percorso che intraprendi diventa l’unico possibile.”

Il libro fotografa bene un certo mondo del lavoro, diverso rispetto a quello di pochi anni fa, ma che rimane ancorato a dinamiche accentuate da una richiesta di performare sempre più incessante.

Per Ida la vita diventa presto un incubo: colleghə che fanno gruppo chiuso, compiti da portare a termine in tempi impossibili, programmi sconosciuti da usare: persino la richiesta di procacciare il pranzo per i suoi superiori diventa una sfida in cui riuscire a non fallire. 

Il burnout, mostro dei giorni nostri, è dietro l’angolo. 

Anche quando lo scenario cambia – basta un’idea giusta a permetterle di entrare nell’olimpo della vita attiva dell’agenzia – la situazione non migliora, anzi la pressione aumenta e la vita al di fuori dall’ufficio perde ogni valore.

Qualche giorno fa, ascoltando Morning – il podcast di Francesco Costa da cui sono ormai dipendente – ho appreso che in America un numero elevatissimo di persone ha lasciato volontariamente il proprio lavoro perché infelice, incapace di continuare a sostenere ritmi esasperanti. Complice di questa presa di consapevolezza è stata certo la pandemia – personalmente ci sono dei giorni in cui avverto la mancanza del tempo donatomi dal primo lockdown – ma il tema era caldo già da un po’. Così come l’altro macigno affrontato: il ricatto della rinuncia alle proprie aspirazioni per la sicurezza di un contratto.

… anche io avevo quell’obiettivo, era lo stesso, e invece all’improvviso tutto ciò che voglio è un contratto a tempo determinato. Non c’è poesia in questo. È così che finisce il  mio viaggio dell’eroe? L’eroe ottiene un contratto a tempo determinato per un lavoro che ancora deve ben capire che lavoro sia, e vissero tutti felici e contenti?

Questo libro quindi disturba, almeno questo è l’effetto che ha fatto a me: leggendo ho iniziato a riconoscere alcune delle dinamiche di potere in cui ci si trova invischiati di frequente, sebbene il più delle volte inconsapevolmente, sul luogo di lavoro. La figura del capo è ben costruita: le tecniche di manipolazione subdola filtrano attraverso questo personaggio, che passa dall’apparire accogliente come un padre al mostrarsi deluso dal fallimento incommentabile. Umilia e torna subito ad intrigare attraverso il flirt, che spinge fino al limite per poi tirarsi indietro, riportandosi sul gradino più alto della gerarchia, insinuando in Ida il senso di colpa di non aver capito, l’insicurezza e la convinzione di non essere adatta.

Mi ha detto che se faccio la brava, se mi comporto bene, è sicuro che qui per me ci sarà una possibilità concreta di assunzione… ha detto proprio così: fai la brava, Ida. Che ti voglio parte di questa famiglia. Una frase del genere credo di averla sentita l’ultima volta forse a otto anni, da mio padre… di solito la usava come una sorta di minaccia per farmi smettere di stare davanti alla tv quando abusavo della VHS del Principe d’Egitto.

Il narcisismo insito in molte figure di potere – uomini e donne – così come la manipolazione sul luogo di lavoro è un argomento molto discusso, spesso però sconosciuto alle stesse “vittime”. In questo libro le autrici toccano le corde nascoste della ribellione in chi legge e, inconsapevolmente, lo subisce. 

Non è questo che sognavo da bambina ha un finale ottimista, forse non proprio realistico, ma che spinge a una riflessione urgente, necessaria per tornare a vivere le possibilità come strade da percorrere fino a raggiungere la felicità, anche quando questa è semplicemente nascosta in un vocabolario di greco tra i banchi di un liceo classico.

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