(c) Pedro Soares

Probabilmente Saramago

Probabilmente Saramago e io ci siamo incontrati per la prima volta tra le pagine più difficili dell’autore, quelle de Il vangelo secondo Gesù Cristo. Scioccante per la critica internazionale, che ha definito l’idea un abominio,  Saramago l’anticristo e il libro uno scritto contro natura. Scioccante per me che un romanzo potesse essere così concorde con la natura, invece, la mia. Ho trovato tutto ciò che ho poi riconosciuto e amato nel resto dei suoi scritti: la cura per l’umano, nella doppia accezione latina che ha il termine, ovvero di affanno e interessamento,  l’ironia lucida, la diffidenza, il linguaggio piano, il ritmo, il discorso diretto senza segni d’interpunzione e quindi la maestria delle sue virgole. Proprio questo modo di dare la parola permette a Saramago la creazione di accostamenti, mai scontri, arricchimenti, mai soluzioni: si procede a tentoni, ma sicuri di arrivare.

 Viva la letteratura, viva Saramago! (Sture Allén in chiusura alla cerimonia della consegna del Nobel)

Cercando un paragone italiano – e mi si perdoni se è troppo scontato o addirittura azzardato, che spesso è la stessa cosa – farei il nome di Italo Calvino. Entrambi provenienti da un ambiente letterario che esigeva una scrittura realista e impegnata, hanno coltivato e curato l’abbraccio del fantastico nella realtà reale: un visconte può  girare dimezzato senza problemi, la penisola iberica può tranquillamente prendere il largo per i fatti suoi. La grande differenza, a mio parere, con Cortázar, del cui fantastico ho parlato in occasione del suo centenario e che «è al massimo un inaspettato senza sorpresa», sta nel fatto che in Calvino e Saramago si avverte sempre un poco, di sottofondo, con azione disturbante, il senso dell’assurdo, alimentato con forza da una scrittura ironica e lucidissima, che anche nei momenti lirici e di tensione non smette di nominare le cose con il loro nome. Nonostante il ritmo incalzante della prosa di Saramago, che è stato definito il più autentico rappresentante europeo del realismo fantastico latino-americano, non avverto né fretta stilistica né urgenza di contenuto: ogni parola è dove e come dovrebbe essere, non riesco a pensare a un complimento migliore per un uomo che delle parole ha fatto il suo mestiere.

Inoltre, se c’è natura in Saramago (ed è una domanda retorica), non è qualcosa contro cui andare, anzi: è una natura familiare; nato tra due fiumi, in una terra pianeggiante, «per buone o cattive ragioni, onnipresenti nella memoria e nella conversazioni delle famiglie», incontra presto l’hurbanitas di Lisbona, teatro perfetto e mappa da disegnare coi propri passi. Tutto il Portogallo − uomini piante montagne capre libri programmi della radio − entra nella scrittura di Saramago in modo naturale, come se fosse solo da cogliere − con le parole, ovviamente. Ma non è a Lisbona che lo scrittore nasce davvero: per farlo, deve risalire la corrente, tornare alla sorgente, «soltanto io sapevo, senza avere coscienza di saperlo, che negli illeggibili in-folio del destino e nei ciechi meandri del caso era scritto che sarei dovuto tornare ancora ad Azinhaga per finire di nascere» (Le piccole memorie), come si legge nella Protopoesia:

[…] Tutta l’acqua mi passa tra le palme aperte, e di colpo non so se le acque nascono da me, o verso di me fluiscono.
Continuo a tirare, non più solo memoria, ma il corpo stesso del fiume. […]

Ed è sempre con l’immagine di un fiume che Luciana Stegagno Picchio racconta l’amico Saramago, quando, dopo il 1974, «emerge con l’impetuosità del torrente carsico che, scorrendo nelle viscere della terra, ha comunque variamente diretto e ingrossato il proprio corso, ricevendo affluenti di diversa origine. Subito dopo l’apparizione, il torrente acquista la maestà del fiume che si avvia sicuro, ma non frettoloso, alla foce, consentendo finalmente una navigazione segnata da tappe sempre più significative e spettacolari». L’acqua che bagna Lisbona, che circonda l’Alentejo, che abbraccia Lanzarote, dove Saramago si trasferirà nel 1991, in quella che è semplicemente, come recita la targa all’ingresso, “A Casa”. Arrivato, finalmente, anche se così lontano da dove è nato, nel posto in cui può vivere. Nascere, crescere, abitare, tappe che hanno occupato l’intera vita di Saramago: non azioni puntuali ma progressive, cercate con forza e volontà, come nelle sue opere: ogni storia inizia con un movimento.

Niente di ciò ha importanza, se non per me. (Il perfetto viaggio)

Il Saramago che voglio raccontare è quello che racconta − e non è facile. Insisterò sul dare voce, perché è esattamente questo ciò che fa nella sua scrittura: dona la parola a tutto e tutti, indiscriminatamente. Ogni cosa possiede una voce, ma ancora di più: ogni cosa ha parlato a José Saramago. Ci saranno molte citazioni, quindi, in questo dossier, ma, oltre a quelle scritte, ci saranno anche parole parlate:  vi consiglio infatti di cuore il documentario José e Pilar del regista portoghese Miguel Gonçalves Mendes, che ha seguito lo scrittore e la sua compagna per due anni. Girato tra il 2006 e il 2008, durante la scrittura de Il viaggio dell’elefante, è uscito ufficialmente nel 2010, lo stesso anno della morte di Saramago, ed è stato per altro proiettato in Italia per la prima volta durante il Festival della Letteratura di Mantova alla presenza proprio di Pilar del Rio, nel settembre 2011. Ve lo consiglio anche se non siete dei lettori di Saramago, perché è prima di tutto un documentario ben fatto dal punto di vista tecnico: al di là dei contenuti, è un vero piacere per gli occhi. Ma in fondo, che si sia o no degli appassionati di quello che non a torto è ricordato come “il Maestro”, per sapere davvero chi è stato José Saramago dobbiamo farcelo raccontare da lui.

Ho raccontato altrove come e perché mi chiamo Saramago. Che quel Saramago non era un cognome da parte paterna, bensì il soprannome con cui era conosciuta la mia famiglia nel paese. Che quando mio padre andrò a dichiarare all’Anagrafe di Golegã la nascita del suo secondo figlio, capitò che l’impiegato (si chiamava Silvino) fosse ubriaco (indignato, di questo lo avrebbe sempre accusato mio padre) e che, nei fumi dell’alcol e senza che nessuno si accorgesse dell’onomastica frode, decidesse, a suo rischio e pericolo, di aggiungere Saramago al laconico José de Sousa che mio padre voleva che fossi. (Le piccole memorie)

incipit di Tutti i nomi

incipit di Tutti i nomi

Scrivere è un lavoro.  «Non sono nato per essere un scrittore, è evidente, perché ho cominciato a scrivere solo in quest’ultima parte della mia vita. Sono stato fortunato, avrei potuto morire prima e non realizzare nulla. Che peccato sarebbe stato!», così si confessa Saramago durante la presentazione de Il viaggio dell’elefante a Rio de Janeiro. In effetti, tralasciando alcune prime prove scrittorie compiute attorno ai vent’anni e a cui Saramago non riguardava con favore, solo dopo il 1974 si può parlare di una vera e propria produzione letteraria, con un preciso senso di coscienza della propria posizione di scrittore: «Scrivere è un lavoro, e come ogni altro lavoro deve essere fatto bene» chiarisce in un’intervista. Molti dei personaggi di Saramago hanno in effetti a che fare con la scrittura: non sempre per professione, ma più che altro, e non è banale sottolinearlo, proprio per la loro condizione umana. Sono esseri umani quindi parlano e perciò devono fare i conti con la scrittura, i suoi poteri e i ben più grandi misteri. Così il correttore di bozze Raimondo Silva nella Storia dell’assedio di Lisbona con un avverbio di troppo (e che avverbio, un potentissimo “non”) cambia il corso della storia, il Signor José di Tutti i nomi può cambiare la storia del suo cuore, con la particella “qui” possiamo racchiudere un momento e un luogo, oppure ingannarlo.

Fatto forse poco conosciuto, infatti, è che José Saramago nasce come poeta: la ricerca della parola nella sua tensione massima, questo è il compito della poesia ed è quello che cerca di assolvere Saramago fin dal suo esordio, avvenuto nel 1966 con Le poesie possibili (Os poemas possíveis) :

[…] parlerò, parlerò, fino a scovare
la parola celata che mi esterni. […] (Se não tenho outra voz)
[…] (poesia è ricomporre le parole) […] (Caminho)
Vado aprendo un cammino di parole
diretto proprio al cuore delle cose […] (Compensaçao)

Un manifesto di poetica e una poetica manifesta: opera di un giovane che non aveva fatto l’università, figlio e nipote di analfabeti, meccanico di professione, impiegato di lavoro. Eppure, la ricerca “al cuore delle cose” è da compiersi con tutte le proprie energie, si tratta di una vera e propria missione, anzi trovo che il momento poetico di Saramago sia un’importantissimo spartiacque per sua la scrittura. Di quasi vent’anni prima è infatti il suo primo libro, figlio ripudiato, ovvero Terra del peccato; proprio come accadde per Calvino con Il sentiero dei nidi di ragno, di cui disse, nella seconda prefazione: «Il primo libro bisognerebbe non averlo mai scritto».  Lo stile realista, in Terra del peccato, è ancora troppo forte, proprio come lo è nel Sentiero di Calvino: un’esigenza dell’epoca, ovviamente, che chiedeva ai propri scrittori impegno politico anche nella letteratura, di adesione alla realtà-così-com’è, come nel caso di Una terra chiamata Alentejo (Levantado do Chão)  che narra un’intera classe sociale in un preciso momento storico, in una sorta di saga dei vinti che è tanto cara alla tradizione italiana. Non è perciò un caso se è con la Rivoluzione dei Garofani che comincia a trovare davvero lo spazio per la propria voce, allontanandosi dal filone realista portoghese. Questo non significa certo abbandonare l’elemento politico, anzi: ed è qui che si compie l’ulteriore magia che gli permette di appropriarsi di uno stile riconoscibile.
Se i primi lavori sono perfettamente collocabili nella Storia portoghese, come nel caso di Una terra chiamata Alentejo (1980), ambientato tra il primo Novecento e la dittatura di Salazar, pian piano Saramago comincia ad adottare una tecnica di “spostamento”: L’anno della morte di Ricardo Reis (1984) racconta il terribile 1936 e l’avanzare delle dittature europee ma è ovviamente a quella salazariana, sua contemporanea, che Saramago si vuole riferire. Con Storia dell’assedio di Lisbona l’oscillare tra i giorni presenti e il XII secolo è orchestrato e tenuto con una maestria non indifferente, e siamo già al 1989. Più passano gli anni e più si viene a delineare chiaramente la materia della scrittura di Saramago: non la Storia, non il Tempo, ma è il Portogallo il vero protagonista della sua produzione – meglio: il racconto del Portogallo, il Portogallo che si lascia raccontare, che ha una voce e che vuol farla sentire. Luciana Stegagno Picchio commenta così: «Lo stile orale di Saramago, fatto di intonazioni, di tratti soprasegmentati, di sottolineature, di cambi di voce e di tono […] è una letteratura per gli orecchi oltreché per gli occhi. […] Di fronte a ogni quadro dice noi, e mai loro»: è esattamente ciò che avviene con i protagonisti de La zattera di pietra, su cui «viaggia la nostra identità […]  Mi è piaciuto dar loro la parola e subito dopo assaporare le loro voci, i loro discorsi di gente come noi, che utilizzano la lingua che è nostra e scoprono che le cose non sono poi tanto diverse da una parte o dall’altra della frontiera». (da Tuttolibri-La Stampa, Torino 26/11/1988)
È il caso Tertuliano Maximo Afonso, chiaramente, che, mentre si sta per mettere a tavola, decide di scoprire sull’enciclopedia cosa sia la rana pescatrice, mangiandone prima la definizione si gusterà meglio il piatto: un’appropriazione per via orale.

Strano rapporto quello che abbiamo con le parole. Ne impariamo da piccoli un certo numero, nel corso dell’esistenza ne raccogliamo altre che ci arrivano dall’istruzione, dalla conversazione, dal rapporto con i libri, eppure, a paragone, sono pochissime quelle sui cui significati, accezioni e sensi non avremmo alcun dubbio se un giorno ci domandassero seriamente se ne abbiamo. Così affermiamo e neghiamo, così convinciamo e siamo convinti, così argomentiamo, deduciamo e concludiamo, discorrendo impavidi alla superficie di concetti sui quali non solo abbiamo idee molto vaghe, e, malgrado la falsa sicurezza che in genere ostentiamo quando tastiamo il cammino in mezzo alla nebulosità verbale, meglio o peggio continuiamo a capirci, e a volte persino a incontrarci. (L’uomo duplicato)

La ricerca volta a trovare il vero significato delle parole non è quindi terminata, nonostante la produzione di Saramago diventi sempre più coerente, anche nello stile. La forma cambia, con la forma lo scrittore gioca tantissimo, passando dai romanzi ai pezzi per il teatro, ma il movimento poetico non si arresta, cerca se stesso e qualcos’altro, cosa chi lo sa:

Ma badate che c’è anche che chi dice che le fate che presiedettero alla mia nascita non mi destinarono all’esercizio delle lettere, Non tutto nel mondo è lettere, mio signore, andare quest’oggi a far visita all’elefante salomone è, come forse si verrà a dire in futuro, un atto poetico, Che cos’è un atto poetico, domandò il re, Non si sa, mio signore, lo scopriamo solo quando ormai è avvenuto. (Il viaggio dell’elefante)

A scritti come Le piccole memorie, i Quaderni o, andando a ritroso, a Il perfetto viaggio, una raccolta di cronache scritte  tra il 68 e il 72, Saramago affida i propri pensieri e registra il proprio sguardo sul mondo, ma è con Manuale di pittura e calligrafia, del 1983, che ci offre una visione di se stesso come intellettuale e scrittore. Si tratta di «un libro ponte, un libro cerniera, un libro confessione, un libro programma» che ci mostra come Saramago lavori alle proprie opere: «Chi abbia letto con una certa attenzione i miei libri sa che, al di là delle storie che raccontano, quello che c’è dentro è un continuo lavoro sui materiali della memoria, o, per dirla con più precisione, sulla memoria che via via continuo ad avere di quello che, nel passato, è già stata memoria» (Quaderni di Lanzarote, 13 gennaio 1995).

È nel 1998 che arriva il riconoscimento internazionale, con l’assegnazione del Nobel per la Letteratura. Primo portoghese a vincerlo, in un periodo in cui il Portogallo stesso lo ripudiava, per la sua “adozione” spagnola dovuta alla scelta di ritirarsi a Lanzarote. In realtà, Saramago non abbandonerà mai la sua lingua: un momento teneramente buffo del documentario José e Pilar lo vede nella serata di inaugurazione della Biblioteca preso dall’inizio del suo discorso di ringraziamento. Momento di grande imbarazzo:  i presenti lo hanno fermato e gli hanno chiesto di esprimersi in spagnolo e non portoghese, perché non riescono a capire cosa stia dicendo.  Saramago tentenna, riprende il discorso, si ferma e chiede «È spagnolo questa volta?».
Raccontare nella propria lingua − che lavoro difficile. Conoscendola così bene (è tua!) non si può sbagliare: e Saramago non sbaglia. La motivazione del Nobel ce lo ricorda:  allo scrittore «che, con parabole portatrici di fantasia, compassione e ironia rende ogni volta comprensibile una realtà sempre sfuggente». Ma, ancora una volta, è Saramago a saperlo dire meglio:

L’uomo più saggio che io abbia conosciuto in vita mia non sapeva né leggere né scrivere. […] Mio nonno, il quale, steso sotto un fico, con accanto il nipote José, era capace di mettere in moto l’universo con due sole parole. […] [tutte queste persone] avrebbero finito per fare di me, la persona in cui oggi mi riconosco: creatore di quei personaggi, ma al tempo stesso, loro creatura. In un certo senso si potrà addirittura dire che, lettera per lettera, parola per parola, pagina per pagina, libro per libro, ho piantato nel mio orizzonte i personaggi che ho creato. Credo che, senza di loro, non sarei la persona che oggi sono, senza di loro forse la mia vita non sarebbe stata altro che un abbozzo impreciso, una promessa come tante altre che non sono riuscite a realizzarsi, l’esistenza di chi forse avrebbe potuto essere e che alla fine non è riuscito a essere. […] La voce che ha letto queste pagine ha voluto essere l’eco delle voci congiunte dei miei personaggi. non ho, a rigore, altra voce che quella che loro hanno avuto. Perdonatemi se vi è parso poco questo che per me è tutto. (Discorso tenuto durante la consegna del Nobel)

JS fotografato da Daniel Mordzinski

JS fotografato da Daniel Mordzinski

Bellissima umanità. La «terrestrità» di Saramago, come l’ha definita Fernanda Toriello, non è solo vissuta con orgoglio, ma con altrettanto orgoglio raccontata: nascere è bello, morire è bello,  la debolezza è bella, la forza è bella, bello è scalare la Montana Blanca a 70 anni perché semplicemente avevo cominciato a camminare e visto che c’ero ho continuato, come direbbe qualcun altro; Saramago si conosce, con precisione, e conosce l’uomo: per questo non ne parla, ma lo fa parlare. Ed è in grado di far parlare direttamente i propri personaggi perché, proprio come lui, proprio come noi tutti, vanno nel mondo per affrontarlo con nient’altro che le parole.

Ha creato un cosmo che non vuol essere un universo coerente. Ci ha dato versioni ingegnose di una storia che non si lascia imprigionare. (Kjell Espmark)

Della sua opera forse più controversa e di cui ho parlato in apertura, Il vangelo secondo Gesù Cristo, si può dire proprio questo: queste sono le parole che Gesù avrebbe detto − se fosse toccato veramente a lui parlare. La dimensione religiosa diventa quella soprannaturale, perché se è vero che dio è un’invenzione dell’Uomo allora dio non sta nella natura. Il  centro della narrazione non è il divino, che sarebbe come dire che il centro della narrazione è una matita − per carità, si può fare benissimo, ma a noi non interessa questo. A noi interessa chi ha creato queste cose, il punto d’origine senza cui tutte queste cose non potrebbero esistere: l’uomo, sempre l’uomo, e tra questi uomini Gesù, il più uomo di tutti, e come tutti «solo e dolente su questa terra, con la sua umanità e le sue domande senza risposta. […] Il suo progetto letterario, saldo e coeso, è fondamentalmente un progetto di riscatto dell’uomo» continua Fernanda Toriello.

Qualcuno, più sensibile, dirà che ci sono troppi morti in questa pagina. Forse ha ragione, ma scrivere di loro è il modo, l’unico alla mia portata, per mantenerli in questo mondo ancora per qualche tempo. Chi parlerebbe oggi di mio fratello Francisco, se non ci fossi io? Chi immaginerebbe, se non esistessi io per raccontarlo, che quel Jéronimo Melrinho, analfabeta, rozzo guardiano di porci, uomo dei silenzi, aveva un cuore tanto grande? È anche per dirlo che io vivo. (Quaderni di Lanzarote, 8 novembre 1996)

Uomini costretti a fare i conti con la Storia, a respirare e prendersi spazio nelle pieghe che questa loro concede; morsa terribile e spesso distopica, come ne Le intermittenze della morte, dove la gente smette di morire (sì, è davvero una distopia, e solo Saramago avrebbe potuto dimostrarcelo), nel Saggio sulla lucidità, dove la gente esercita il proprio diritto a non votare, ma soprattutto in Cecità, che è il romanzo che ha portato Saramago al Nobel.
«È stato come una lunga malattia» ha detto di questo libro: una malattia che non solo il nostro tempo ha conosciuto bene e che ammala la mente e che somatizza nell’organo della vista. «L’idea era lì che fluttuava, io l’ho inspirata, ed è così che è nato il libro… Poi, pensarlo, farlo, soffrirlo, quella è stata, come doveva essere, opera di traspirazione…» (Quaderni di Lanzarote, 9 agosto 1995): l’idea è quella di un’umanità  persa. Ciechi, non sanno dove andare, ciechi, non si riconoscono come uomini. Esattamente come la moglie del medico, il lettore sente nei confronti della storia terribile di questo libro  un dovere, che è quello di arrivare alla fine. Tutto il dolore, tutto il tormento, la nausea e il dispetto e l’indignazione che riempiono le pagine, dove conducono il lettore? La moglie del medico ce la farà? O gli altri continueranno a bere da lei, a consumarla poco a poco senza ritegno, senza mai chiederle “Ma tu, cosa vedi?” ma solo “Cosa vedi per me?” È forse il lettore l’unico suo testimone? E testimone di cosa, totale disfatta o salvezza precaria? Seguiamo con gli occhi una storia che non si può vedere: «Vuol dire che abbiamo parole in più, Voglio dire che abbiamo sentimenti in meno, Oppure ce li abbiamo, ma non usiamo più le parole che potrebbero esprimerli, E dunque li perdiamo» (Cecità).

Un ritrovamento: da questo nasce Tutti i nomi.  L’idea venne a Saramago durante la sua ricerca del fratello Francisco, morto  piccolo, scomparso dalle carte: alla ricerca del fratello perduto parte e nel suo cammino incontra la Burocrazia, ma anche la sua storia. Questo volta con la minuscola, perché si tratta della storia intima e piccola di un bambino e di un affetto. Affetto: è la parola che si contende con Burocrazia il primato nel libro; tra tutti i nomi, affezionarsi a uno solo, tra tutti i nomi, solo quello del protagonista è detto, il Signor José, che un giorno, per caso, si tiene una cartella in più e comincia a sovvertire ogni Ordine: e in quel giorno «Non sembro neanche io, pensò, e probabilmente non lo era mai stato tanto». Nel momento in cui la catalogazione automatica di tutti gli esseri umani viene meno e compare la ricerca di Quell’Essere Umano Particolare, il Signor José può diventare se stesso. Non è (più) un segreto, che noi siamo noi stessi solo quando siamo con il nostro unico altro.

José Anaiço non piange, ma guarda fisso i bollori spumeggianti che balzano fuori dalla fenditura, come se vi vedesse apparire un’idea di vita, l’acqua che sgorga dalla minerale profondità delle montagne come un dono, senza chiedere niente in cambio, se non che l’amino e la proteggano. È allora che Pedro Orce dice, La nascita del Guadalquivir è davvero ben poca cosa di fronte a questa, vero è che il destino di questo fiume non è stato il destino dell’altro, ma qui, tra queste gole, guardando queste acque, il tempo ha un altro senso, come un istante di eternità nell’atroce brevità della durata umana. La nostra. (Da Orce a Castril per la strada più lunga)

fotogramma da José e Pilar

fotogramma da José e Pilar

Il tuo nome tra tutti i nomi. Perché l’amore per Pilar è così importante? Ce lo dice Saramago stesso, durante la presentazione de Il viaggio dell’elefante a Rio de Janeiro: «Posso dire una cosa, qui, ora che ho 86 anni. Se fossi morto prima di incontrare Pilar, sarei morto molto più vecchio».
Pilar del Rio non è solo una giornalista, una femminista, una traduttrice, sua moglie, l’amore della sua vita: Pilar  è la persona che veramente  sprona Saramago alla sua nascita di intellettuale. Ventiquattro anni d’amore, nati quasi per caso. Pilar è una giornalista che ammira la prosa di Saramago e che, cogliendo al volo l’occasione di un viaggio dello scrittore in Spagna, gli scrive un biglietto chiedendogli un incontro. «Non ti ha detto di volerti fare un’intervista?» chiedono stupiti gli amici di Saramago, che lo attorniano nel giorno del rinnovo dei voti nuziali. No, assolutamente, non si parlava di un’intervista nel biglietto: così Saramago ha detto di sì, e l’ha aspettata nel luogo dell’appuntamento, pur non sapendo affatto che aspetto avesse Pilar. E quando è entrata,  ha sentito la terra tremare. Lo ha raccontato a noi nella Zattera di pietra: «Ha fatto muovere il pavimento di legno come il ponte di una nave, come l’anelito di una barca tra le onde, lento e ampio», così come ci ha suggerito che la giovane donna di Cecità condividerà la vita con il vecchio scrittore. La loro differenza di età, 28 anni, agli occhi di molti ha il colore dell’affronto. Sì, perché l’opinione pubblica ha sempre avuto molto da dire riguardo a questa relazione: è colpa di Pilar se Saramago è rimasto in terra spagnola, è colpa di Pilar se Saramago è affaticato, è colpa di Pilar se Saramago invecchia, è colpa di Pilar se. In effetti, è tutto merito di Pilar se Saramago ha voluto continuare a scrivere: il bisogno di trovare le parole lo ha portato a cercarle, a interrogarle, a pretendere che il loro potere venisse alla luce sulla pagina. A scriverle, insomma.

Pilar:  “O quê queres que eu faça?” (Cosa vuoi che io faccia?)
José “Continuar-me” (Continuarmi).

Le donne che abitano i libri di Saramago sono tutte donne forti e di carattere perché Pilar, «a presidenta», è una che chiede alle parole di raccontare i fatti. È una giornalista di professione, è un’intellettuale ed è donna: sa benissimo che se non chiede chiarezza alle proprie parole tutti potrebbero usarle contro di lei. Quindi corregge i suoi intervistatori, si indigna e alza la voce contro chi maneggiando manipola le dichiarazioni. Ha la fama di essere implacabile solo perché è diretta. Da lei Saramago impara senza dubbio a pretendere che “il cuore delle cose” spunti in superficie, rifletta la luce e dichiari di essere qualcosa. Non c’è bisogno di dirlo a parole, basta dirlo con le parole: non spiegare, indicare. È qui, sulla pagina − quindi è anche fuori. Va’ e cercalo. Magari ti capiterà di passare per Azinhaga, dove, da qualche anno, Rua José Saramago incrocia Rua Pilar del Rio.

A Pilar, fino all’ultimo istante (L’uomo duplicato)
A Pilar, i giorni tutti (Saggio sulla lucidità)
A Pilar, la mia casa (Le intermittenze della morte)
A Pilar che ancora non era nata e tanto ha tardato ad arrivare (Le piccole memorie)
A Pilar, che non ha permesso che io morissi (Il viaggio dell’elefante)
A Pilar, come se dicessi acqua (Caino)
e, ovviamente,
A Pilar (Tutti i nomi)

Il documentario José e Pilar inizia nello stesso modo in cui si conclude: lo schermo è nero, la voce di Saramago pronuncia «Pilar». L’immagine appare. Saramago è solo di fronte all’obbiettivo, sullo sfondo il paesaggio di Lanzarote. Ha le braccia conserte. Sorride. «Incontriamoci da un’altra parte». Saramago avanza verso di noi, spegne la registrazione. Così inizia, così si conclude − no, non si conclude, non si conclude questo amore, non ci conclude questo pensiero e non concludono queste parole,  perché nulla conclude, lo diceva Pirandello, lo diceva Virginia Woolf e, se qualcun altro ha le parole giuste per dirlo, quello è sicuramente Saramago.

L’immagine in evidenza è una fotografia di Pedro Soares, a cui vanno tutti i diritti. 
Bibliografia
JS, Cecità (Ensajo sobre a Cegueira), trad. di Rita Desti, UE Feltrinelli, 2010
JS, Il perfetto viaggio (A bagagem do Viajante), trad. di Giulia Lanciani, Bompiani, 1998
JS, Il vangelo secondo Gesù Cristo (O Evangelho segundo Jesus Cristo), trad. di Rita Desti, UE Feltrinelli, 2010
JS, Il viaggio dell’elefante (A viagem do elefante), trad. di Rita Desti, Einaudi, 2010
JS, La zattera di pietra  (A jangada de pedra), trad. di Rita Desti, UE Feltrinelli, 2010
JS, Le piccole memorie (As pequenas memórias), trad. di Rita Desti, Einaudi, 2007
JS, L’uomo duplicato (O homem duplicado), trad. di Rita Desti, UE Feltrinelli, 2010
JS, Manuale di pittura e calligrafia (Manual de pintura e caligrafia), trad. di Rita Desti, UE Feltrinelli, 2011
JS, Poesie (contiene anche Le poesie possibili e Probabilmente allegria), trad. di Fernanda Toriello, Einaudi, 2002
JS, Quaderni di Lanzarote (Cuadernos de Lanzarote), trad. di Rita Desti, Einaudi, 2010
JS, Tutti i nomi (Todos os nomes), trad. di Rita Desti, UE Feltrinelli, 2010
Luciana Stegagno Picchio, José Saramago. Istantanee per un ritratto, Passigli Editori, 2000
José e Pilar, regia di Miguel Gonçalves Mendes – trailer
A Casa José Saramago – website

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