Rivoluzione francese, o dell’affermazione di una nuova storia nazionale

La storia è maestra se la si sa leggere. Ed essa insegna che il male ha sempre natura proteiforme, prescrivendo di non adattarsi solo a combattere spettri. (Edmund Burke)

Acquaforte, Apertura degli Stati generali a Versailles il 5 maggio 1789 (di I.S. Helman da un disegno di Charles Mounet)

Edmund Burke, autore di Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia, afferma che gli uomini sanno trarre dalla storia tutti gli insegnamenti morali che essa può conferirgli, ma che allo stesso tempo può distruggere la loro felicità. La storia, infatti, è costituita dalle miserie che alimentano l’orgoglio, l’ambizione, la vendetta: tutti quei vizi che causano delle tempeste. I pretesti di queste tempeste, che non sono altro che rivolte e rivoluzioni, sono a loro volta la falsa sembianza di un bene reale. Gli uomini lottano per affermare la loro libertà e i loro diritti, traendo spunto dal passato. La storia, nel XIX secolo, sarà meglio compresa e insegnerà a una posterità civilizzata a inorridire di tutte le barbarie accadute nel passato.
Edmund Burke, nelle sue Réflections, si domanda: Cosa diremmo se qualcuno volesse vendicare sui parigini di oggi gli abomini di ieri? 

Nel linguaggio storico il termine di rivoluzione ha assunto solamente in modo graduale l’attuale significato di rovesciamento sollecito in seguito ad un determinato assetto sociopolitico. Intorno al ‘500-‘600 aveva valenza di solo mutamento politico. Per esempio, in Inghilterra, nel 1688 dopo l’espulsione degli Stuart, il termine rivoluzione indicava un ritorno alle antiche libertà inglesi: Guglielmo e Maria erano ascesi al trono secondo il diritto di successione che voleva Maria figlia di re Giacomo e di questi riconosciuta diretta discendente. Della rivoluzione gloriosa ce ne parla approfonditamente Simone Marcelli per la sezione Con(di)vergenze.
Durante l’Illuminismo il concetto di rivoluzione comincia ad avvalersi del suo significato attuale. Rousseau scrive in Émile ou de l’éducation: «Voi avete fiducia nell’ordine attuale della società senza pensare che questo ordine è soggetto a rivoluzioni inevitabili […]. Il grande diventa piccolo, il ricco diventa povero, il monarca diventa suddito […]. Ci avviciniamo alla situazione di crisi e al secolo delle rivoluzioni
Dopo il 1789, la parola rivoluzione assume una valenza positiva, affermandosi come l’inevitabile strumento del cambiamento e dello sviluppo per il progresso sociale e per un rovesciamento politico.

Acquaforte, Venditori di giornali illustra la moltiplicazione dei giornali all’inizio della Rivoluzione.

Il 1789 segna la disgregazione dell’Ancien Régime e contraddistingue un mondo fondato sul concetto di uguaglianza. La Rivoluzione francese, nota come rivoluzione per antonomasia, è data non soltanto dalla crisi economica che invade la Francia, ma anche da un processo culturale e religioso: durante il ‘700 circolò in Francia la letteratura clandestina e si sviluppò il movimento illuminista, incentrato sulla ragione che prevaleva su tutte le antiche credenze. Inoltre, vi fu un processo di scristianizzazione, testimoniata dalla riduzione delle pratiche di culto.

François Furet è uno storico francese tra i più importanti studiosi della Rivoluzione francese. Il suo libro Critica della Rivoluzione francese è redatto in due parti: nella prima egli tenta di sintetizzare il suo pensiero riguardo alla Rivoluzione francese, nella seconda riporta le opinioni di Soboul, Tocqueville e Cochin riguardo alla Rivoluzione, sostenendo che Tocqueville e Cochin sono gli unici ad avere dato una concettualizzazione rigorosa della Rivoluzione. Per Furet, lo storico della Rivoluzione francese, a differenza dello storico che deve dimostrare l’obiettività, deve dichiarare come la pensa: a seconda della sua critica sarà definito monarchico, liberale, giacobino. Nonostante se ne decreti la fine nel 1799, la Rivoluzione influenzerà il percorso storico successivo: solamente con la proclamazione della Terza Repubblica, circa un secolo dopo, nel 1870 con la vittoria dei repubblicani sui monarchici la rivoluzione affermerà la sua vittoria.

Tocqueville scrive che la rivoluzione francese non è la rottura della storia nazionale di Francia, essa è lo sboccio del passato e tutt’altro che una rottura. Quello che fa Tocqueville è scomporre la rivoluzione francese, trattare un problema e non un evento. Lo storico, infatti, deve spiegare la necessità dell’accaduto: se la Rivoluzione è stata resa necessaria, è perché i suoi fautori hanno conferito all’azione un senso globale ovvero sia quello di rompere con il passato, sia quello di creare una nuova storia. L’assioma della necessità dell’accaduto viene visto come illusione retrospettiva della coscienza storica in quanto il passato è un campo di possibili in cui l’«accaduto» a cose fatte sembra l’unico avvenire in quel passato. Nella rivoluzione francese questo assioma ne contiene un secondo ovvero quello della rottura cronologica totale: prima vi è l’assolutismo, dopo la Rivoluzione è la borghesia a prendere il potere. La contrapposizione fra la monarchia a cui è legata la nobiltà e il Terzo stato preannuncia la Rivoluzione che ha come scopo una società egualitaria. La Rivoluzione inventa la cultura democratica in Francia, gli attori rivoluzionari vogliono rovesciare un assolutismo che aveva già perso gran parte del suo potere dopo il governo del Re Sole. Essi, infatti, fanno prevalere l’ideologia rivoluzionaria sull’azione stessa, attraverso l’idea astratta i rivoluzionari vogliono ristrutturare la società. Le questioni morali e intellettuali divengono anche politiche, l’azione viene soppiantata dalla morale e i militanti rivoluzionari commettono l’errore di identificare la vita privata con quella pubblica. La Rivoluzione è vista come linguaggio attraverso il quale si vuole fondare una nazione e la politica democratica diviene ideologia nazionale. Questa prevalenza dell’astratto sul concreto sarà dannosa per le conseguenze dell’evento.

Caricatura sulle cause che portarono alla Rivoluzione: cosiddette doléances

«In questa malattia della Rivoluzione francese v’è inoltre qualcosa di particolare che intuisco, ma che non riesco a descrivere esattamente né ad analizzarne le cause. È un virus d’una specie nuova e sconosciuta. Ci sono state nel mondo molte Rivoluzioni violente, ma il carattere smoderato, violento, radicale, disperato, audace, quasi folle e tuttavia possente ed efficace di questi rivoluzionari mi sembra senza precedenti, nelle grandi agitazioni sociali dei secoli scorsi. Donde viene questa nuova razza? Chi l’ha prodotta? Chi l’ha resa tanto efficace? Chi la perpetua? Giacché, sebbene in circostanze diverse, ci troviamo di fronte sempre gli stessi uomini che hanno prolificato in tutto il mondo civile. Il mio pensiero si sfinisce nel tentare di concepire una nozione precisa di quest’oggetto, e il modo di dipingerlo con esattezza. Indipendentemente da tutto ciò che si spiega, nella Rivoluzione francese, c’è qualcosa di inspiegabile nel suo spirito e nei suoi atti. Io sento dov’è l’oggetto sconosciuto, ma per quanto faccia non riesco a strappare il velo che lo nasconde. Lo sento al tatto, come attraverso un corpo estraneo che mi impedisce di toccarlo bene e di vederlo». (Tocqueville)

La Rivoluzione può essere definita dal pessimismo rousseauiano. Per Rousseau esistevano due soluzioni: lo stato di fatto, ovvero l’alienazione della sovranità del cittadino nelle mani di un uomo solo, despota assoluto, e lo stato di diritto, ovvero l’uomo libero ligio alla legge. La Rivoluzione, però, mostra la distanza fra questi due stati e l’incapacità di attuare gli ideali di uguaglianza. La società del XVIII secolo è guidata dai philosophes e dalla cerchia dei letterati. Tocqueville stesso afferma, nel III libro dell’Ancien Régime, che avendo soppresso la funzione politica della nobiltà, è come se la monarchia avesse eletto i letterati come immaginari sostituti della classe dirigente medesima. Così la letteratura assume una funzione politica: «Se si pensa che quella stessa nazione francese, così estranea ai propri affari e tanto priva d’esperienza, così impastoiata dalle sue istituzioni e così impotente a migliorarle, era anche, a quel tempo, la nazione più colta del mondo e più amante dell’ingegno, è facile capire come gli scrittori vi divennero una forza politica, finendo con l’esserne la più importante». I letterati, però, esercitano una parte immaginaria che si riflette sulla cultura politica stessa: tentano di far prevalere lo stato di diritto a quello di fatto e di sostituire i loro princìpi e i loro scopi all’azione. Essendo privati della vera libertà, i francesi ne creano una astratta che dà origine all’illusione di una nuova politica.

La monarchia assoluta presupponeva una politica che si schierava gerarchicamente intorno ad essa, i nuovi centri intorno a cui si incentra la politica, ovvero i club, differiscono dall’istituzione monarchica. Si crea, però, un’immagine sostitutiva della monarchia che riflette la monarchia stessa: basti pensare alla dittatura giacobina. Più la società acquisisce potere, più deve tentare di discostarsi dalla monarchia.
Inizialmente, nell’89, i due poteri coesistevano pacificamente: Luigi XVI, infatti, aveva convocato gli Stati Generali per far redigere loro i cahiers de doléances. Questi documenti non presentano ancora il linguaggio rivoluzionario e sono pervasi da un riferimento comune alla tradizione, per esempio i cahiers della nobiltà tentano di rivendicare le libertà individuali e i diritti dell’uomo e sono simbolo dell’opposizione alle riforme che andavano a toccare proprio i ceti privilegiati. Nonostante la debolezza di Luigi XVI, sembrava che il re detenesse ancora il potere. Il binomio re-nazione era indispensabile per l’autorità pubblica legittima. La figura del re era vista come personificazione dello stato, la nazione, invece, era vista come collettivo umano storico. Dopo la nascita dell’Assemblea nazionale costituente il re è sempre a capo della nazione, ma è la nazione stessa a conferirgli potere e il suo governo considerato legittimo finché egli si sottomette ad essa. È attraverso la nazione che i francesi recuperano l’immagine di un potere illimitato che sarà una delle cause dei seguenti problemi che la nazione stessa dovrà affrontare. Tutti i cahiers rivendicano la determinazione dei diritti, dietro a queste parole vi è un potere da conquistare. Per affermare l’ideologia rivoluzionaria, infatti, sono necessarie due condizioni:
– Il potere vacante e disertato dalle autorità tradizionali;
– La possibilità di interpretare la volontà del popolo attraverso le richieste presenti nei cahiers.

La Rivoluzione, che ha il suo culmine nel 1789, è comunque anticipata dalla scelta di convocare gli Stati Generali, dal Parlamento di Parigi che si era arrogato il ruolo di rappresentare la nazione e si contrapponeva al re e dall’appello a Necker, politico ed economista a cui era stata affidata la riforma finanziaria. Tutti questi eventi creano un vuoto di potere globale e se fino al maggio 1789, l’istituzione politica incentrata nelle mani del re di Francia continua a reggere, con la ribellione dei Comuni agli ordini del re, la Rivoluzione verrà vista come la cristallizzazione dei tratti culturali a favore di una nuova coscienza storica. L’ideologia del Terzo stato prevarrà su tutto e la figura del re perderà la sua funzione centrale e con lei anche quelle della nobiltà e della Chiesa.

Dalla primavera del 1789 il potere non è più in mano al re, si trova in uno stato vacante e vi è un’instabilità della politica rivoluzionaria a causa delle fazioni che si contendono il potere. Il regime organizzato fra il 1789 e il 1791 si preoccupa di privare i membri dell’Assemblea di ogni potere esecutivo. Per la Rivoluzione il potere esecutivo è corrotto e corruttore per natura, senza contatti col popolo e privo di legittimità. Di singolare importanza per lo sfondo storico-culturale è il fatto che la parola subentra al potere come unica garanzia che quest’ultimo appartenga al popolo: la socialità democratica invade la sfera del potere, ma la occupa con l’opinione che è duttile e che è soggetta al controllo del popolo. Divenuta potere, l’opinione dev’essere tutt’uno con il popolo. Ma in realtà vi è solo uno spostamento del potere: il potere appartiene a chi parla in suo nome. Dunque, appartiene alla parola che, pubblica per natura, è lo strumento che svela ciò che vorrebbe rimanere nascosto. Alla lotta degli interessi per il potere, la Rivoluzione sostituisce una competizione dei discorsi per il potere e istituisce una competizione dei discorsi per il monopolio della legittimità: il mestiere dei suoi leader non è l’azione, bensì l’interpretazione dell’azione. La parola è ambigua, mira al potere nel momento in cui ne denuncia la corruzione. Basti pensare al linguaggio utilizzato da Mirabeau: nelle note segrete a Luigi XVI egli difende la monarchia popolare e nazionale, ma questa politica nei discorsi tenuti all’Assemblea appare tra le righe poiché egli è costretto a utilizzare il linguaggio rivoluzionario che vuole che il potere si scomponga nel popolo. La Rivoluzione viene vista come la legittimità del popolo: la politica si incentra su questo principio che è impossibile personificare. Il club dei giacobini diviene immagine simbolica del popolo che controlla l’Assemblea costituente e ne elabora le decisioni, stabilisce il funzionamento attraverso la dittatura d’opinione in nome della libertà e del popolo. Se la democrazia rivoluzionaria e il popolo coincidono, si viene a creare un rapporto fra la politica e il popolo concreto che scende in strada durante le «giornate» rivoluzionarie.

Il discorso centrale è quello dell’uguaglianza – scopo della nuova politica e opposto all’ideologia monarchica – che tutti i leader parlamentari fecero a partire da Sieyès per arrivare a Danton e Robespierre. Tutti utilizzarono il discorso come leva del potere stesso, ma solamente Robespierre creerà un’ideologia secondo cui non vi è differenza fra la lotta per il potere e la lotta per gli interessi del popolo che coincidono. Per Cochin, il giacobinismo si fonda su un discorso immaginario del potere divenuto un potere assoluto sulla società.

Discussione fra Marat, Danton e Robespierre

Discussione fra Marat, Danton e Robespierre

Robespierre condanna Danton per la sua corruzione e viene visto come l’incarnazione della giustizia del popolo. Egli parla il linguaggio della rivoluzione, ma i suoi continui discorsi sui buoni e sui cattivi, sul bene e sul male lo porteranno alla ghigliottina: egli sarà schiacciato dalla sua stessa dialettica. Se da vivo Robespierre incarna il popolo, da morto verrà visto come una figura di congiura contro la Rivoluzione, ma sarà proprio questo a rendere ancora più concreto il suo mito.

Robespierre alla ghigliottina.

Robespierre alla ghigliottina.

L‘Incorruttibile è vittima della ghigliottina, il 9 termidoro determina la fine della rivoluzione, la rivincita della società reale sull’illusione politica. Il 9 termidoro è visto come una rottura decisiva. Dalla caduta di Robespierre, la società riprende la sua indipendenza. La Francia resta legata alla Rivoluzione intendendo ciò che vi fosse di rivoluzionario nella società dopo il periodo termidoriano, ovvero gli interessi e la volontà nel conservare i vantaggi acquisiti. Il Terrore non può più essere attuato dopo la morte di Robespierre perché la società recupera la sua autonomia e l’ideologia rivoluzionaria non coincide più con il potere. Le rappresentazioni dell’azione ora sono tornate ad essere subordinate all’azione stessa. L’ideologia ha impersonato la Rivoluzione, Tocqueville parla di Rivoluzione come cultura egualitaria in quanto lo sviluppo della monarchia assoluta che, attraverso la Rivoluzione, ha svuotato le sue gerarchie. Il trionfo di questa cultura, senso della Rivoluzione francese, conduce Luigi XIV direttamente a Napoleone Bonaparte, proclamato imperatore dei francesi il 18 maggio 1804, che incarna la vecchia immagine del potere unita alla nuova legittimità.

Ciò che Furet vuole dimostrare è che la Rivoluzione elimina molti ostacoli che erano dati da un’autorità centrale amministrativa e che la Francia rivoluzionaria integra la società e lo stato attraverso il discorso della volontà popolare, le cui forme estreme sono il Terrore e la guerra. La Rivoluzione termina perché rinuncia al suo linguaggio. La sua importanza storica è data dal fatto che la Rivoluzione francese è vista come la prima esperienza della democrazia.

La Rivoluzione francese del 1789 lascia un segno, permette al popolo di scendere in campo per rivendicare i propri diritti e nonostante la Rivoluzione sia vista, subito dopo la sua fine, come un’ideologia illusionista che non prevede concretezza, gli uomini che vi succederanno saranno influenzati dal 1789 fino al 1870 quando verrà proclamato lo Stato repubblicano di Francia dopo la battaglia di Sedan.

La libertà che guida il popolo - Delacroix

La libertà che guida il popolo – Delacroix

La Rivoluzione francese è matrice di storia universale in quanto si ripeterà altre due volte: si rivede una seconda Rivoluzione francese nel 1830 quando Carlo X, ultimo sovrano della dinastia dei Borbone, viene sostituito da Luigi Filippo. Il 1830 ripercorre la Rivoluzione del 1789: questa seconda rivoluzione, infatti, sarà segnata dalle ondate popolari e le idee rivoluzionarie saranno rinforzate.
Nel 1848 vi sarà, invece, la terza Rivoluzione francese in cui il re Luigi Filippo sarà costretto ad abdicare, la Comune rispolvererà l’utopia giacobina.

La Rivoluzione francese e le sue conseguenze furono seguite da tutta Europa. Inizialmente i ceti illuminati guardavano positivamente il rovesciamento dell’assolutismo, dopo lo scoppio della guerra e l’uccisione del re i sostenitori della Rivoluzione in tutta Europa diminuirono. Colui che apre il dibattito sulla Rivoluzione francese è Edmund Burke, che nel 1790 pubblica Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia in difesa della tradizione. Egli vede come principio della Rivoluzione l’avidità dei ceti abbienti e la congiura dei filosofi, accusa l’Illuminismo, ma ciò che di fondamentale spicca nella sua opera è la contrapposizione fra la Rivoluzione francese e la Gloriosa Rivoluzione inglese avvenuta nel 1688 senza il coinvolgimento del popolo e senza spargimento di sangue.

Cosa diremmo se qualcuno volesse vendicare sui parigini di oggi gli abomini di ieri? Edmund Burke dà questo spunto di riflessione, pone questa domanda a cui si può facilmente dare una risposta. Ancora al giorno d’oggi, nessun parigino vuol vendicare gli abomini della rivoluzione poiché la Rivoluzione è assodata come cambiamento della storia nazionale francese, un cambiamento necessario per lo sviluppo storico-culturale. Anche la figura di Robespierre che viene in seguito dissacrata non perde valenza, al contrario egli continua ad essere visto come mito e come partecipante attivo della Rivoluzione.

Perché la Rivoluzione francese acquisisce più risonanza di quella inglese che l’ha preceduta? Burke, criticando la Rivoluzione francese, vi dà inconsapevolmente rilevanza. È rivoluzione per antonomasia poiché costituisce una rottura non soltanto con l’ormai debole Ancien Régime, ma anche rottura nei confronti di tutto ciò che avviene prima del 1789. È come se vi fosse una lacerazione tra gli avvenimenti del passato – a partire dalla monarchia di Carlo Magno – e tutto quello che avviene in seguito. La Rivoluzione può essere forse considerata inutile, ma è indispensabile. È possibile considerarla inutile poiché essa segue un percorso ciclico: dall’incrinatura con l’Ancien Régime si ritorna alla monarchia napoleonica, ma quello che Burke non sottolinea è che Napoleone diventa imperatore, ma imperatore voluto dal popolo. Egli viene scelto, non discende dai Borbone, si afferma come cittadino e combattente, difensore della patria. La Rivoluzione francese è indispensabile poiché il popolo acquisisce autonomia per la prima volta. Quando Furet scrive nel suo libro che la Rivoluzione è il primo passo verso la democrazia non si sbaglia se si fa riferimento all’etimologia della parola che significa governo del popolo (dal greco δῆμος (démos): popolo e κράτος (cràtos): potere). Se la Rivoluzione è prima che una rivolta, un linguaggio, i philosophes che lo parlano, riescono nel loro obiettivo. Attraverso i loro discorsi, ispirano fiducia nel popolo che da passivo, diviene attivo: esso partecipa alla Rivoluzione, ciò non accade nella Rivoluzione Gloriosa. Principalmente per questo motivo, sostengo che la Rivoluzione francese sia la rivoluzione per antonomasia. Perché è una rivoluzione che invade qualsiasi campo e permette a tutta la popolazione, a tutte le fasce, di prendervi parte. Il fatto che venga conferito potere al popolo, anche se solo apparentemente in quanto i philosophes cercano di controllarlo, fa sì che la rivoluzione acquisti un’accezione positiva poiché nonostante le decapitazioni e i sotterfugi, tutti la sentono e la vivono: la partecipazione della nazione è totale.

Fonti:

1.AGO, VIDOTTO, (2004), Storia moderna, Bari, Editori Laterza;
2.FURET, (1989), Critica della Rivoluzione francese, Roma-Bari, Editori Laterza;
3.BURKE, (1998), Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia, Roma, Ideazione editrice.

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