Sette lezioni (e altre cose) per diventare scrittori inutili

Mi sa che a Ermanno Cavazzoni piace proprio tanto classificare. Vite brevi di idioti (1994), Storia naturale dei giganti (2007), Guida agli animali fantastici (2011), Gli eremiti del deserto (2016) e, tornando un pochino indietro, Gli scrittori inutili (2010) sono raccolte di esempi, catalogazioni di esemplari, di casi − intesi sia come accadimenti sia come fatti particolari, incarnazioni-limite di una certa tipologia di essere vivente. Gli scrittori inutili, in particolare, sono una raccolta di “Sette lezioni e quarantanove casi” a cui ogni aspirante autore dovrà sottoporsi per riuscire a diventare il migliore della sua categoria – quella che dà il nome al libro, appunto. Perché, assieme al talento e alle circostanze, fattori chiaramente innegabili nel loro contributo alla causa, è indispensabile l’esercizio intenzionale e continuo per diventare perfettamente inutili.

I primi appunti per questo libro nascono mentre Cavazzoni è in treno: è un periodo in cui si sposta continuamente da e per Roma perché lavora per una rivista «disgraziata», perché non gli ha «portato altro che disgrazie». È un momento di insicurezza e di sbandamento, in cui le parole “scrittura” e “scrittore” «mi schiacciano e me neErmanno-Cavazzoni vergogno». Cominciano così dei piccoli sfoghi e delle piccole riflessioni che col tempo si raccolgono in una serie di ritratti (o di casi, come suggerisce il sottotitolo) «come se fossero la descrizione di questa razza che sono gli scrittori − una vera e propria razza, dotata di usi e costumi e abitudini, si fiutano, assomigliano certe volte ai cani, ai gruppi di cani che si fiutano il sedere l’uno l’altro».¹

L’occhio con cui Cavazzoni può guardare a questa specialissima razza è giustificato e influenzato dal suo contemporaneo porsi al margine della scrittura ufficiale, creandone piuttosto una propria e personalissima, che gli veniva riconosciuta da Celati già nel 1992, e dal riuscire comunque a far parte di un gruppo (collocabile forse più geograficamente, che cronologicamente) che condivide un uguale sentimento ironico nei confronti del mondo e lo stesso approccio alla lingua.  In particolare, nel passo che segue, la questione linguistica (che in Italia è ben lontana dall’esaurirsi, che le grammatiche lo vogliano o meno) sembra combinarsi con l’idea di fondo degli Scrittori inutili:  «Per aver delle idee ed esporle, consiglio di partire dai propri difetti di fabbricazione e non nasconderli. […] Nel ’900 ci si è liberati dell’ideale, con tutto il suo apparato didattico (che però sopravvive, ed è un bene, nelle classi scolastiche) ed è rimasta solo la malattia, il difetto, che però è la condizione umana, e in ogni caso la condizione umana linguistica, dove ognuno è un caso a se stante, e non c’è cura» (dai Consigli a rovescio).   
E Cavazzoni, questa «fata coi baffi» (Silvia BallestraGli orsi, 1994), fa esattamente di questo la forza della propria scrittura, cimentandosi in «un disegnare che sbava via dai contorni delle cose, ed è tipico dei bambini che colorano le figure degli album» (Prof. Epifanio Ajello).

Chi voglia diventare scrittore inutile, non ha che da esercitarsi. Ed è raccomandato l’esercizio dei vizi, che sono sette; occorre insistere in ciascuno di essi fin che improvvisamente non si apre una nuova visuale e si resta lì muti, molli e incapaci del tutto. Ma poiché non è facile a volte diventare anche solo scrittori, ci sono per questo le scuole. […] Ma neppure è facile diventare inutili, per quanto si studi, ci si applichi e ci si ingegni; a meno che la vita con le sue evenienze non ci venga in soccorso.
(dalle Avvertenze a Gli scrittori inutili)

Quindi, un incontro tra i sette vizi capitali ed esemplari della specie degli scrittori che ci si ritrovano invischiati dentro. A noi (dove noi siamo “noi italiani tutti”), come cosa, dovrebbe far subito pensare alla Comedia dantesca. E lo fa, solo che qui la speranza di redenzione è veramente lontanissima − anzi, non dev’essere nemmeno contemplata, giacché ci stiamo sforzando proprio per diventare del tutto inutili.

schemino

i quarantanove casi-capitoli e come sono classificati (immagine contenuta nel libro Gli scrittori inutili)

Il risultato è una sorta di breviario antropologico, di classificazione e di studio, in cui ricorrono osservazioni sulla natura degli autori («Tuttavia lo scrittore è raro oltre i duemila metri sul livello del mare», 7) e sulla loro fortuna («In quell’epoca a Milano gli scrittori si erano messi a delinquere, vuoi per la poca voglia di lavorare, vuoi per la loro inutilità, vuoi per un’insita propensione al crimine e ai comportamenti amorali», 24). Presi singolarmente o in gruppo, è importante ricordarsi che «gli scrittori per principio si odiano, però non riescono a staccarsi l’uno dall’altro. li si vede anche camminare a braccetto come inseparabili amici. Invece si odiano» (17). ² E quelli che ha a sua volta in particolare odio Cavazzoni sono gli agglomerati più o meno istituzionalizzati e consacrati di questi scrittori.

I riferimenti alle case editrici, per esempio, abbondano in numero e amarezza. Nel (4), per esempio, uno scrittore in disuso viene mantenuto da una casa editrice perché si occupi della lettura dei manoscritti che vengono inviati, ma viene continuamente assalito da giovanotti e signorine che ne abusano sessualmente, nella speranza di un voto favorevole alla pubblicazione; in (11) allo scrittore viene creato dal suo editore un alter ego così perfettamente studiato per aderire all’immagine che il pubblico si aspetterebbe dall’autore di quel tale libro, che alla fine nemmeno uno degli amici più cari riesce a credere che si tratti davvero di lui, e l’alter ego comincia a esistere come entità a se stante.  In (38), viene detto che le case editrici «hanno tutto l’interesse a far restare gli scrittori in depressione, perché uno scrittore euforico non è governabile, consuma corrente elettrica, acqua calda, gas, vuole andare a teatro, non vuole gli abiti usati».
Ma, soprattutto, Cavazzoni ce l’ha abbastanza a morte con le scuole di scrittura: «Uno scrittore diventato famoso e tradotto anche all’estero aveva aperto una scuola. “Se non si soffre”, diceva agli allievi, “non si diventa scrittori”. Perciò d’accordo con loro li malmenava» (36). Quasi peggio, però, i conciliaboli che gli scrittori creano tra di loro per lusingarsi a vicenda, come quello che apre l’opera, in cui quattro scrittori tengono incontri con bambole e allievi gonfiabili, felici di un pubblico sinceramente perennemente stupito e in silenzio d’ammirazione:

Essendo però questi allievi piuttosto scadenti di marca, succedeva che ogni tanto qualcuno improvvisamente forasse. Non era gradevole; i quatto scrittori si intristivano subito, perché dal foro usciva qualcosa come un fischio, come una pernacchietta, che naturalmente non aveva alcun significato, questo era ovvio, ma metteva in uggia, maldisponeva.   (1)

Un altro tipo di assemblamento di autori che ricorre nel libro è quello dei congressi: ci sono mamme che sognano i propri figli-scrittori avere successo davanti alla folla di suoi pari, ci sono giovani promesse che incalzano i più maturi finché questi non si chiudono nei bagni a piangere; ma, soprattutto, ci sono scrittori che, inorgoglitisi del loro momentaneo ruolo di oratori, non fanno che pronunciare «discorsi pieni di quindi, di dunque e per cui; infarciti di sebbeneché, come già dissi, in relazione a; si prounciarono parecchi sappiasi e infiniti nel caso in cui» (42). In mezzo a tutti questi, però, c’è una persona che, forse per la prima volta nel libro, prende posizione per distaccamento (dove invece sembra che gli scrittori agiscano per assemblamenti) e dice una cosa che (non provate a negarlo, non provateci nemmeno. Io non l’ho fatto) è passata almeno una volta per la mente di chiunque abbia a che fare con il mondo accademico:

Ma uno scrittore fra il pubblico, forse sensibile, forse inadeguato, ascoltava; e ascoltando sperava tornasse anche solo per poco il nazismo, e che gli scrittori fossero perseguitati e lui gettato in un campo di sterminio a morire di fame e di stenti assieme a tutti coloro che si dichiarano scrittori o si atteggiano a tali. Dopo poteva tornare immediatamente la democrazie e la libertà di parola. Anzi, per non far patire la popolazione, lo scrittore auspicava che un gerarca nazista sparasse a lui solo, lì nella sala, una rivoltellata senza dar spiegazione. Al che lui, cadendo, avrebbe detto: “Grazie” e immediatamente sarebbe svanito il nazismo e tornata la democrazia generale. Essendo lui l’unica vittima ed essendo il nazismo durato pochi secondi, quasi nessuno se ne sarebbe accorto. Chi faceva questi pensieri ero io. (42)

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L’immagine in evidenza è la copertina del libro Gli scrittori inutili, ed. Guanda. Il disegno e la grafica sono di Guido Scarabattolo, a cui sono riservati tutti i diritti. 
¹  Il video, da cui sono estratti i virgolettati del paragrafo, continua con la lettura della Lezione di gola, quella sulle polpette, che è anche il punto da cui ho iniziato questo libro − dal mezzo, è vero, ma è lì che l’ha aperto la persona che me l’ha passato, dopo circa un anno da quando l’ha comprato con me  in questa libreria.
² Sono sicura che sia una citazione da un poeta novecentesco − ma ancora non sono riuscita a ricordare quale. Nel caso ricevessi illuminazioni, ne inserirò qui un nome, seguito da un punto esclamativo.

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