Tutti amano l’italiano, tranne gli italiani

Se vi presentate a un colloquio di lavoro, ciò che conta ancor prima del vostro personale curriculum, delle vostre esperienze pregresse e dei vostri titoli, è la conoscenza della lingua inglese. A poco importa che non sappiate il congiuntivo imperfetto in italiano o non siate capaci di formulare un discorso di senso compiuto: l’italiano non è richiesto, l’inglese sì.

Gli ultimi governi italiani hanno spinto molto in questa direzione, accolta e promossa forse troppo poco criticamente dai media e dal marketing pubblicitario, così si assiste a una proliferazione di anglicismi che, dapprima confinati ai soli ambiti economico e informatico, si riassorbono oggi nel tessuto del linguaggio comune, generico.

Gli anglicismi, ammettiamolo pure, non sono un pericolo di per sé: non limitano né riducono la bellezza e la ricchezza della nostra lingua. A farlo, piuttosto, è la politica per la quale debbano sostituirsi – e non aggiungersi, integrandosi – ai corrispettivi italiani.

È il caso del Politecnico di Milano, in cui – nel 2014 – si è tentato di impostare l’offerta formativa di tutti i corsi specialistici e dei dottorati in lingua inglese, con conseguente rimozione della lingua italiana dall’insegnamento. Il rettore Azzone intendeva aderire, con la nuova riforma, a quel processo di “internazionalizzazione” da molti indicato come necessario per lo sviluppo del paese, ma il Tar – e 150 docenti interni alla struttura – si sono opposti con fermezza al cambiamento, illegittimo perché in contrasto con gli articoli 3, 6 e 33 della nostra Costituzione.

L’illegittimità dell’iniziativa del rettore, pur sancita in sede istituzionale, risulta tuttavia inesistente se si guarda alla Riforma Gelmini, con cui risulta perfettamente in linea e che afferma il “rafforzamento dell’internazionalizzazione anche attraverso una maggiore mobilità dei docenti e degli studenti, programmi integrati di studio, iniziative di cooperazione interuniversitaria per attività di studio e di ricerca e l’attivazione, nell’ambito delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente, di insegnamenti, di corsi di studio e di forme di selezione svolti in lingua straniera”.

Che non sia illegittima anche la Riforma? Il Consiglio di Stato ha sollevato molteplici dubbi in proposito e non è questa la sede in cui andrebbero discussi, ma il dato è già indicativo di come non si tenti di accostare l’inglese all’italiano quanto di svecchiare l’italiano attraverso l’inglese.

L’operazione lascia perplessi. Perché non c’è alcuna ragione per cui le istituzioni italiane dovrebbero svantaggiare la lingua che ci appartiene e a cui apparteniamo, che costituisce e rappresenta la nostra identità culturale nel mondo. Perché promuovere una lingua estera in un paese in cui si sta disimparando la lingua autoctona velocizza e incentiva il processo di perdita linguistica e culturale. Perché la globalizzazione non dovrebbe prevedere l’omologazione passiva ma l’integrazione critica delle risorse e la cooperazione degli Stati, anche in ambito linguistico. Perché mentre qui si svaluta la lingua italiana come fosse sterile e obsoleta, all’estero è la quarta lingua più studiata del mondo, nonché la più ammirata.

Soffermiamoci su quest’ultimo punto. Dagli ultimi dati raccolti è emerso che l’Italiano è in ascesa nell’Est europeo, in Russia, nei paesi arabi, in quelli latino-americani e perfino in Vietnam. Il motivo è elementare: la lingua italiana veicola simbolicamente la cultura italiana, da quella artistica a quella poetica, da quella letteraria a quella culinaria, da quella cattolica a  quella della musica lirica.

Una delle istituzioni più attive per la diffusione dell’italiano all’estero è la Società Dante Alighieri, con 423 sedi sparse per il mondo, che ha riscontrato come con l’abbandono del latino sia stato l’italiano ad assumere il ruolo di lingua veicolare della cultura musicale e del Cattolicesimo.

Un italiano che all’estero è percepito come rappresentativo dello scenario artistico, naturale e creativo del nostro Paese, quindi prestigioso, e che supera cinese, giapponese e tedesco, nonostante gli scarsi investimenti dei nostri Governi sulla cultura umanistica italiana e sulla sua promozione estera.

Anche il cibo, che negli ultimi anni è diventato di comune e diffuso interesse, ha avvicinato gli stranieri alla lingua italiana, fosse anche solo per leggere le ricette, così come a provocare lo stesso effetto è l’interesse storico per una nazione come la nostra, centrale per l’occidente tutto, dove è sorta la prima università Europea (Bologna, 1088), dove risiede il Papa, dove correnti artistiche e letterarie, ma anche innovazioni tecnologiche e scoperte scientifiche, si sono susseguite senza sosta, dove si concentra ben il 50% dei tesori artistici del mondo secondo l’Unesco.

Conoscere l’italiano significa per tanti stranieri avere accesso a un patrimonio letterario di fondamentale importanza e straordinaria bellezza. Ma significa anche, talvolta, avere accesso al lavoro nei paesi partners commerciali dell’Italia, in cui la conoscenza linguistica viene interpretata nei termini di un’appartenenza e di una predisposizione naturale a riconoscere e ricreare quella stessa qualità tipica dei prodotti made in Italy, in settori quali la moda, l’artigianato, il design, l’industria aerospaziale, la robotica e l’industria chimica.

Non sorprende dunque che in Canada siano in molti a parlare italiano, né stupisce che numerosi scrittori di origine straniera abbiano scelto di esprimersi in italiano.

Facciamo giusto qualche esempio, a partire dal trovatore provenzale Raimbaut de Vaqueiras, che sul calare del XII secolo scrisse due componimenti a strofe alternatamente provenzali e italiane e che impiegò l’italiano per stilizzare la poesia amorosa aulica, ricercata e iperletteraria secondo modalità che si protrarranno fino al Novecento.

Montaigne e Lope de Vega, rimasti mortalmente affascinati dal petrarchismo, adottarono la nostra lingua per scrivere, rispettivamente, il Journal du voyage nel 1580 e un’ottava del poema Filomena.

Louise Labé, la maggiore poetessa del Cinquecento francese, guidò simbolicamente la fitta schiera dei poeti francesi cosiddetti italianisants perché scriventi in lingua italiana.

John Milton, dopo aver letto appassionatamente Tasso, scrisse nel negli anni ’30 del ‘600 ben sei componimenti in italiano, inseriti poi nel 1645 all’interno dei Poems.

Voltaire e Byron, tra Sette e Ottocento, scrissero numerose lettere in italiano, pur spesso maccheronico (riportiamo qui solo alcuni divertenti errori di Voltaire: «vi amerò insino alla mia morte», «l’anima vi apartiene per sempre», «la vostra tenerezza mi risana», «Sono indegno di voi mia anima», «ma più che mai incapricito di voi», «Baccio il vostro gentil culo»).

Gogol’ e Mozart ricorreranno spesso alla lingua del Belpaese per comunicare ed esprimersi, e Joyce impiegò nel suo plurilinguismo anche l’italiano.

Il caso più noto è quello Novecentesco dell’americano Ezra Pound, che all’inizio del 1945 pubblicò in un periodico della Repubblica Sociale Italiana due testi in italiano, successivamente raccolti nei Cantos, che contengono moltissimi termini della Commedia racchiusi in una struttura metrica tipica della poesia italiana: l’endecasillabo.

Ma il secolo scorso è stato attraversato da moltissimi scrittori stranieri che hanno scelto l’italiano, da Nassera Chohra, autrice di Volevo diventare bianca, a Saidou Moussa Ba con La promessa di Hamadi del 1991 e fino a Pap Khouma con Io, venditore di elefanti, del 1990.

L’ultimo caso in ordine cronologico risale proprio a qualche settimana fa, quando è stato pubblicato il nuovo romanzo della scrittrice anglo-indiana Jumpha Lahiri, scritto interamente in italiano e intitolato In altre parole.

Questo breve e certo non esauriente excursus lungo nove secoli, che annovera importanti e famosi intellettuali stranieri, dimostra come l’interesse, l’ammirazione per la lingua italiana e per la cultura di cui essa è veicolo e strumento siano sempre state e siano ancora vive.

Ce lo ricordano gli studi, le classifiche, i numeri e l’evidenza che non ammettono di essere sacrificate nel nome di un’internazionalizzazione che anziché arricchire e rafforzare la nostra identità linguistica nel confronto attivo con le altre promuovono un’idea di globalizzazione nociva per le identità minoritarie come la nostra.

Per fortuna, alcuni organi, alcuni eventi e alcune campagne sostengono la difesa della nostra lingua. La Settimana della Lingua Italiana rappresenta da 14 anni un appuntamento tradizionale tra le istituzioni che si occupano del nostro idioma: il Ministero degli Affari Esteri, gli Istituti italiani di cultura, i lettorati, la Società Dante Alighieri, gli enti gestori. L’accademia della Crusca difende – come può – la nostra lingua, messa a dura prova da una diffusa ignoranza, e periodicamente si assiste a nuove iniziative, l’ultima delle quali è #dilloinitaliano, ideata e promossa da Anna Maria Testa nella speranza che non si rinunci nel parlato quotidiano all’uso di espressioni italiane per espressioni o termini inglesi.

Rimane solo l’ambiguo e paradossale approccio del Governo a quella che – riprendendo un’espressione dalla forte connotazione storica – potremmo definire “la questione della lingua”. Ma resta anche, immutata nella sua magnifica essenza e nella sua straordinaria varietà questo immenso, invisibile patrimonio che è la lingua italiana.

Si mescolino le lingue, si uniscano all’italiano l’inglese, il francese, l’arabo, il cinese. Ma non lo invadano o corrompano, piuttosto lo accompagnino verso un futuro di multiculturalità, mano nella mano e mai sotto il pugno.

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