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Lingua come specchio e strumento: “Femminili singolari” di Vera Gheno

Per vivere più femministə: libri, podcast, arte, musica, newsletter e fonti per allargare gli orizzonti e aprire le menti. È la volta di Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole di Vera Gheno per effequ.

Oggi è il 2 giugno, la festa della Repubblica e l’Articolo 1 della nostra Costituzione recita: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». È una parte così fondante della nostra identità nazionale da essere posta addirittura in apertura: tutto quello che segue, quindi, ne consegue, e parte da questa premessa. Cosa succede, però, se nel mondo del lavoro non c’è spazio per le donne?

Ho volutamente scelto di non affrontare questo argomento e questo saggio il 1 maggio, perché il problema da mettere in luce è specificatamente linguistico e locale: in Italia la questione non è solo la necessità delle quote rosa o la differenza nella retribuzione, ma la perpetuazione del sessismo attraverso le parole.
Non solo “signorina” invece di “dottoressa”, non solo “donna” invece di “imprenditrice”, lo sminuimento della professionalità si manifesta tanto sul luogo di lavoro quanto nella comunicazione quotidiana da parte di testate nazionali (si vedano Il Corriere della Sera, fondato nel 1876, o Il Resto del Carlino, nato nel 1885), come NarrAzioni Differenti riporta e denuncia ogni giorno.

È un passo fin troppo breve al rifiuto costante della normale declinazione al femminile delle professioni, anche quelle già attestate: con Femminili singolari, Vera Gheno raccoglie centinaia di commenti sparsi tra Facebook e Twitter, mostrandoci come questo rifiuto non sia solo radicato a tutti i livelli sociali, ma che sia soprattutto spalleggiato da motivazioni estetiche o politiche – se non da entrambe – e non da spiegazioni linguistiche. «Io non uso i femminili per dimostrare alcuna parità. Li uso perché li reputo naturali» (p. 100) sottolinea Vera Gheno, supportando ogni utilizzo ed evoluzione con la storia del vocabolo, la sua composizione, la sua declinazione: eppure la replica più quotata alla spiegazione del funzionamento della nostra lingua è un “mi faccia il piacere”.

Ma anche senza arrivare alla questione sociale (far emergere la donna in ambito lavorativo), da linguista mi chiedo perché maestra non sia ridicolo, ma ministra sì. Chi può ergersi ad arbitro di ridicolaggine o di bellezza? Da un punto di vista linguistico non esiste motivo al mondo per cui, in presenza di donne che svolgano un certo mestiere o una certa funzione, alcuni nomi di mestieri e funzioni abbiano un femminile e altri no. Il messaggio è colmo di riferimenti al campo dell’estetica: “orrendo, brutto, orripilante”. Ma anche la reiterazione del concetto non cambia la sostanza: il giudizio estetico è personale.

Vera Gheno, Femminili singolari, p. 99

Ministra ricorda minestra, architetta ha la tetta: questi sono alcuni dei commenti che vengono lasciati qua e là su Internet e che, per chi li ha digitati, hanno assolutamente valore – e non uno qualunque, ma assoluto. Io sono laureata in Italianistica, con una tesi in Lingua e Cultura Italiana: per me è normale anche vedere poetesse chiedere di essere chiamate le poete, perché ne comprendo la scelta politica e rimango consapevole che la lingua è uno strumento, oltre che uno specchio. Ci serve per fornire anche la nostra versione della realtà, per raccontarla e comunicarla: quindi va bene che una parola si trasformi, smetta di essere usata o entri improvvisamente in uso, perché «si tratta di una normale evoluzione della lingua, che normalmente segue la realtà nei suoi cambiamenti» (p. 120).
Perché, allora, così larga parte della popolazione italiana accetta twerkare ma non può sentir dire sindaca e, anzi, si oppone in ogni modo alla sua diffusione?

quella volta che Vera Gheno è stata la mia digital heroine

Da un lato, credo che il problema venga anche dalla nostra educazione scolastica. Ci viene insegnata una grammatica, prima che una lingua: un meccanismo rigido di causa e conseguenza, di presenze obbligate e proibizioni. Ci viene fornito un Italiano fossilizzato nella retorica di cui siamo eredi impacciati, così immobile da non rendersi conto nel 2016 che petaloso è perfettamente corretto, da denigrare se stesso e la propria capacità di declinare e creare. Facciamo un esempio.

Non c’è spazio per le donne neanche in ambito ricreativo e benefico: Aurora Leone è appena stata cacciata dalla Partita del Cuore perché donna, e il problema delle donne nello sport è tutt’altro che occasionale. Ma, a pagina 195 di Femminili singolari, Vera Gheno ci ricorda che il calcio femminile è stato trasmesso per la prima volta dalla tv italiana solamente nel giugno del 2019, portando con sé un ulteriore imbarazzo: quello di telecronisti e giornalisti (sì, al maschile) per la parola portiera. Impossibile, urla il pubblico: non mi abbasserò mai ad accettare, tantomeno pronunciare, una simile bestemmia. Non solo perché è difficile accettare che le donne possano ricoprire gli stessi ruoli che ricoprono gli uomini (sul riconoscimento, anche economico, non mi voglio nemmeno soffermare), ma perché «tra le tante false convinzioni in ambito linguistico diffuse in Italia c’è l’idea che se una parola ha un certo significato non può, in alcuna circostanza, acquisirne altri» (p. 159). Si rafforza così il divieto di trasformare, di plasmare e di usare, che è invece alla base stessa di una lingua.

E poi: perché maestra, sarta, infermiera, professoressa non ci fanno così paura ma sindaca, ministra, ingegnera e magistrata sì? Persino il correttore mentre li digito proprio ora, 30 maggio 2021, me li segnala come errori. Perché, molto semplicemente, non li usiamo, non li sentiamo, non ci sono familiari: per questo, e solamente per questo, suonano male, con buona pace di chi sostiene che sia tutta una combutta di noi donne di sinistra – specie terribile capace solo a esigere e distruggere. E, invece, questo è solo il normale funzionamento del nostro linguaggio, che stiracchia i muscoli indolenziti, rimettendosi in moto.

La lingua italiana ha maschile e femminile, tanto negli articoli quanto nei sostantivi e negli aggettivi: non utilizzarli significa semplicemente non sfruttare il potenziale della nostra lingua.
E se anche noi di Tropismi abbiamo deciso di adottare lo scwha, lo facciamo perché siamo consapevoli che «il maschile sovraesteso non è neutro. È, per l’appunto, un maschile sovraesteso» (p. 179). È un ulteriore spazio di libertà che possiamo scegliere di utilizzare perché, oggi, accettare che non esistano solo maschile e femminile deve essere la pratica della mente e della lingua.

Penso che usare i femminili professionali non risolva, di per sé, i problemi delle donne, ma possa aiutare a normalizzare la presenza delle donne in contest professionali in cui prima erano quasi assenti.

Vera Gheno, p. 110

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