Di nuovo e di vecchio folk

È sempre spiazzante scoprire la terra d’origine di un artista dopo averne ascoltato a lungo le canzoni essendosi fatto un idea sbagliata, come se il suolo dove è cresciuta una band potesse segnare le sue radici così a fondo da rendere ciò che suona come un volto su cui rintracciare facilmente la provenienza della lingua che sta per parlare.

Mi è successo proprio adesso dopo aver ascoltato l’ultimo album dei Mumford & Sons, Babel (2012- Island, Glassnote), il secondo disco dopo il successo vertiginoso di Sigh No More.
Tempo fa sentii per la prima volta Little Lion Man, il primo singolo estratto dal loro album di debutto; usciva da una radio in una stazione di servizio nel West Virginia e quel suono di banjo mi fece gioire, credendo che dall’America fosse rinato il roots rock. Mi sbagliavo di grosso.
Sì l’ambiente condiziona tutto ciò che siamo, ma in un ambiente generalmente artificiale conta molto relativamente il proprio milieu folkloristico−musicale, dall’arrivo dell’mp3 e del peer−to−peer almeno. Dunque non da qualche legnoso paese al di là degli Appalachi proveniva quella vibrazione ma dalla grigia Londra di vetro dove l’esperto produttore Markus Dravs, dopo aver lavorato con Coldplay e Arcade Fire, era riuscito a trovare un’altra gallina dalle uova d’oro.

BabelcoverartCon Babel il quartetto londinese pianta fermamente le ruote sulle rotaie che l’hanno portato lontano senza cambiare una virgola musicale alla formula del proprio successo. La prima traccia, title track, crea un sentiero da cui chitarra acustica, dobro e mandolino non si allontaneranno mai per le successive undici canzoni. Il ritmo è semplice e serrato, la voce passa dal lamento sussurrato al grido vittorioso creando pause tensive che esplodono in cori dove il banjo raddoppia gli accordi della chitarra e gli ottoni creano un letto dove i novelli cuori spezzati troveranno struggente conforto.
I Will Wait è il tipico singolo da far girare sulle radio di mezzo mondo, troppo pop per essere vero, ha in se tutto il sound dei Mumford & Sons più varie rapine, dalle mani di Chris Martin e dall’ugola di Win Butler, che ne fanno un prodotto perfetto per il sottofondo di qualunque incontro inaspettato in una commedia sentimentale americana.
La struttura delle canzoni è praticamente sempre la stessa in una continua, riuscita autocitazione che riesce a far ballare come a far commuovere, comunque al riparo da qualunque rischio o sorpresa in un percorso che sembra a volte ripetersi senza causare fratture. Un folk−pop privo di pretese, dal grande contenuto emotivo e complessivamente mai fastidioso, ma anche mai profondo né elevato. In fondo compare anche una cover−tributo a Simon & Garfunkel, duo che Mumford e compagni conoscono sicuramente bene visto l’impasto armonico utilizzato nelle loro composizioni.

C’è un altro secondo album che si lega a questo sicuro successo del presente inverno per l’appartenere a una sfera riconducibile alle orbite folk, per aver rappresentato una personale sorpresa che ha scardinato ostinati pregiudizi ambientali e per essere succeduto a un album di debutto accolto positivamente. L’album ha il nome della band e la band ha il nome The Band.

The_Band_(album)_coverartScoperti e seguiti da Bob Dylan, amati da Eric Clapton che lasciò i Cream dopo aver ascoltato il loro primo LP, filmati in un documentario da Martin Scorsese e omaggiati da band dei nostri tempi, come My Morning Jacket e Death Cab for Cuties, La Band ha cambiato il modo di fare musica in un periodo in cui la psichedelia regnava sovrana. Scritto e suonato nel 1969 da canadesi che parlavano del raccolto americano, il disco è un altro esempio di ritorno alle origini della musica popolare, meno autoindulgente, più asciutto e creativo rispetto a qualunque neo−folk, “vecchio” e simpatico come un nonno altrui incontrato per caso dove non te lo saresti mai aspettato.
In canzoni come Across the Great Divide, Up On Cripple Creek, King Harvest (Has Surely Come) le voci si intrecciano con cori dalle tonalità sorprendenti dove organetti, strumenti a percussione e a corde creano ritmi cadenzati che invitano a sedersi su una seggiola a dondolo per lasciarsi trasportare in colline dalle sfumature musicali color del grano.

Trovate un angolo di sole in campagna dove l’inverno non sia ancora arrivato, prendete qualcuno e ascoltatevi il passato, The Band, mentre lo raggiungete in macchina; arrivati stendetevi su una coperta a quadri e piazzatevi il presente, Babel. Fatemi sapere come è andata.

_

 

_

L’immagine in evidenza è tratta da drealfmgrenada.com

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.