Primavera Sound 2013, dov’è finita la musica

«Il miglior festival musicale del mondo» si è appena concluso lasciando dietro di sé una sensazione di piacere un po’ stordita e consapevole di aver assistito a qualcosa di grande. Saltellano luminose le lettere che compongono la scritta Primavera Sound all’ingresso del Parc del Fòrum mentre l’alba si annuncia come gentile accompagnatrice di chi ha voluto ascoltare fino all’ultimo suono la voce della festa musicale dell’anno.
Mai come in questa edizione si sono succeduti tanti artisti su tanti palchi e mai il pubblico ha dato una risposta così generosa nonostante i prezzi elevati che contraddistinguono il festival spagnolo, un aumento del 40% di affluenza rispetto all’anno passato che ha portato a far circolare sull’asfalto del parco affacciato sul mare più di centocinquantamila persone per un guadagno complessivo di un centinaio di milioni di euro.

Personaggi variegati, soprattutto ventenni e quarantenni morbosamente appassionati di musica “alternativa”, hipsters armati di smartphone e reflex che spesso hanno mostrato sotto palchi infuocati più concentrazione e condivisione virtuale che euforia irrefrenabile; ma anche in grado di farsi trascinare in bolge di inevitabile esaltazione come per il concerto/evento dei Blur, cantato per intero a squarciagola dalla prima all’ultima fila.
Una tipologia di spettatore molto particolare, nella maggior parte dei casi educato, discreto e sobrio (perlomeno fino al tramonto del sole) su cui gli stessi organizzatori hanno voluto scherzare passando sui megaschermi cortometraggi volti a raccontare le tragicomiche relazioni di una fittizia comunità di recupero per hipster combattuti tra l’ossessione per l’apparenza e la ricerca maniacale di artisti indipendenti.
Una ricerca che li ha portati tutti in riva a un mare battuto dal vento ma mai funestato dalla pioggia prevista, a consumarsi le scarpe con l’occhio appuntato all’orologio per cercare di non perdere l’esibizione dell’artista prescelto dal pomeriggio inoltrato fino alla mattina seguente dividendosi tra palchi giganteschi, auditorium e piccole platee.

P1010912L’organizzazione è stata ciclopica e quasi perfetta con le tempistiche rispettate al decimo di secondo; forse anche troppo precise, come nel caso dei concerti di Animal Collective e Nick Cave & the Bad Seeds, costretti a suonare un ora soltanto per la delusione dei molti accorsi per vederli davvero da ogni angolo del globo.
Unica nota dolente questa, assieme alla decisione di aggiungere un main stage dalla parte opposta rispetto a quello storico del Primavera Sound con la conseguente sovrapposizione temporale degli artisti maggiori. Una location inedita, l’Heineken stage, risultata scomoda soprattutto per chi, costretto a restare lontano dal palco, si è trovato in un pendio discendente ideale al massimo per una visione particolareggiata della nuca dei presenti e che ha compromesso l’acustica dell’adiacente palco ATP, più piccolo e costantemente invaso dalle massicce incursioni sonore dell’ingombrante vicino.     Piacere, questo, di cercare il pelo nell’uovo in un festival che in soli tre giorni ha permesso di godere di una girandola di suoni, immagini e colori bastanti a far sognare e emozionare fino alla prossima edizione.
P1010901Proprio per questo non sembra un caso che l’icona del festival sia un immensa e luminosa ruota panoramica, il Primavera stesso infatti non è che un manifestarsi, un permettere un colpo d’occhio/orecchio sul panorama della musica contemporanea.
Una musica in cui ormai l’elettronica la fa da padrona portando anche artisti un tempo acustici a dotarsi di generatori di suoni analogici e dove il ritmo regna incontrastato portando spesso a ballare su sonorità che poco si differenziano dalle pulsazioni di un martello pneumatico o dal ruggito cadenzato di una metropolitana in arrivo; una musica che ricerca maniacalmente il controllo su un onda sonora mai sperimentata prima trasformando il chitarrista esagitato e sguaiato di un tempo in un concentrato e quasi inamovibile cesellatore di vibrazioni.

Il risultato è un incredibile varietà di approcci al suono, una ricerca del proprio sentiero musicale all’interno di una foresta sempre più intricata di possibilità. Un sentiero che, una volta riconosciuto come fruttuoso, può essere percorso con una certa sollevata sicurezza e senza il desiderio stringente di abbandonarlo di nuovo.
Ogni artista possiede il suo strumento di ricerca: sintetizzatori, strumenti a corda, piatti per deejay, conchiglie dentro cui soffiare, e per suo tramite sviluppa un proprio modo di interpretare la giungla che lo circonda; alcuni con maggiore furbizia e l’occhio attento alle esigenze di chi pagherà per ascoltarlo, altri abbandonandosi completamente al flusso che le sue dita riescono a trarre dalla materia muta del proprio strumento.
Ecco le impressioni che alcuni delle decine di artisti accorsi a questo festival avvolgente e turbinante sono riusciti a suscitare.

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P1010987GOAT. In assoluto i migliori del festival, entrano sul palco completamente mascherati e danno vita a una sorta di rituale folle, tribale e quasi orgiastico. Da una formazione giovanissima che presenta il proprio album di esordio (World Music, 2012 Rocket Recordings) non ci si aspetterebbe una tale precisione e vulcanica energia ma per tutto il concerto le due cantanti, mascherate da pseudo-odalische, si dibattono come animali selvatici arpionati a giri di basso mantrici, percussioni martellanti e chitarre ed organetti ipnoticamente coloranti.    Portano dalla Svezia un ondata di furiosa carica danzante che prende alle viscere chiunque vi assista facendolo piombare in uno stato di ilare agitazione forsennata. Assolutamente privi di filtri e indulgenza, primitivi e raffinatamente essenziali creano un happening, un’esperienza che ha l’inquietante attrazione di un primordiale rituale alieno. Imperdibili in qualunque contesto, l’esibirsi di fianco ai Blur non è riuscito a funestare neppure per un’attimo il potere della loro negromanzia sonora.

john-talabotJOHN TALABOT. È il deejay che conclude la prima giornata del festival dalle quattro del mattino fino all’alba nello splendido palco Ray-Ban, il migliore del Parc del Fòrum per l’affaccio sul mare e le gradinate. La prova del potere della consolle solitaria: il deejay spagnolo, cappello con tesa calato sugli occhi, non si fa mai illuminare in viso dalle luci sul palco; emerge solo una silhouette immobile, soltanto le spalle pulsano a ritmo mentre le mani si muovono sicure sopra il mixer e la folla accalcata sotto i suoi piedi impazzisce completamente. Uno spettro oscuro impressionante, impassibile e consapevole della propria potenza.

P1010981TINARIWEN. Uno dei gruppi considerati etnici del festival è un vero spettacolo culturale. Il gruppo malese si presenta vestito come ricchi beduini, saluta in francese e con qualche timido “graçias”, poi da il via al proprio incantesimo. Incredibile la risposta di un pubblico che, prevalentemente abituato all’electro indie, si stringe attorno al palco non appena viene raggiunto dalle sonorità dei sei musicisti arrivati dal deserto. Una prova di professionalità cristallina e un approccio alla dimensione live differente dal pop occidentale, completamente concentrato sulla profondità di una musica che affonda le sue radici nella tradizione venandosi di blues e rock. Quando poi uno dei chitarristi poggia lo strumento per cominciare a danzare morbidamente nella sua tunica dorata il pubblico va in visibilio.

The_Knife_live_Andrew_Novell_1368180466_crop_550x441THE KNIFE. Il duo elettronico, formato da un fratello e una sorella svedesi, fin’ora aveva ripudiato di mostrare il proprio volto nelle apparizioni dal vivo. Stavolta, prima di comparire sul palco, avvertono il pubblico con una videocamera inquadrante un volantino che andranno a scuotere lo show convenzionale. Pochi istanti dopo il palco si riempie di fumo violetto e una figura incappucciata compare svelando strumenti dalle forme inconsuete: percussioni a forma di fiore, un tronco di cono esagonale con una corda tesa sopra, un’arpa dalle corde luminose. Entrano altre cinque figure incappucciate, si mettono dietro i rispettivi strumenti e lo show può cominciare. Afrobeat ed elettronica si mescolano, la sensazione immediata è la consapevolezza di assistere a qualcosa di straordinario, qualcosa di tremendamente in anticipo su un tempo che cessa conseguentemente di scorrere. Tanta teatralità si svela però quasi subito, i musicisti smettono di suonare e cominciano a danzare sulle proprie stesse canzoni mescolando ballo moderno a figure delle danze folk nordiche. La musica era fin dall’inizio registrata? Solo le voci erano reali? C’è chi si sente truffato, chi si esalta nell’assistere a un balletto davvero contemporaneo e chi è troppo confuso per discernere tra entrambe le sensazioni.

P1010962HONEYBIRD & THE BIRDIES. È in uno dei palchi più piccoli, ma più suggestivi per la vista sulle onde scure del mare, che si esibisce un terzetto formato da due ragazze e un ragazzo. I ritmi brasiliani, i vestiti floreali e sgargianti, il carisma della cantante spingono verso il piccolo palco Adidas sempre più persone. Trascinanti, psichedelici, bizzarri, adorabili suonano e cantano canzoni contro la riproduzione e i genocidi con uno stile bislacco e danzerino sfruttando le sonorità di charango, cajòn, basso acustico ed elettrico. Improvvisano scenette sul palco e mischiano vari dialetti in un esperanto che va oltre quello musicale rivelando la loro provenienza, Los Angeles, Torino e Catania, con il fare di allegri artisti di strada facendo comparire a fine spettacolo addirittura un topo gigante sul palco che rabbiosamente scaglia posters del gruppo sugli ascoltatori. Una delle esibizioni più divertenti, fresche e sincere di tutto il Primavera.

APPARAT. La sera dell’ultimo giorno, col sole ancora alto, si preannuncia la comparsa di Apparat nell’Auditorium del Parc, famoso per l’acustica perfetta e fortemente voluto dagli organizzatori del festival che per averlo hanno dovuto spostare le date dell’intera manifestazione indietro di alcuni giorni evitando così un invadente convention di chirurghi. Cornice perfetta per i concerti più “raffinati”, quelli per cui l’oscurità e una seduta comoda sono da anteporre allo scatenarsi della danza, si presta ad ospitare la performance del musicista e produttore berlinese alle prese con Krieg und Frieden, ultima fatica orchestrale composta per un adattamento del romanzo di Tolstoj.
0L’ambiente è buio e silenzioso, soprattutto se confrontato col sole e il vento dell’esterno, e l’immensa platea attende in religioso silenzio. Entrano i musicisti, violino, violoncello, tastiere, chitarra elettrica, varie percussioni e sintetizzatori e la musica comincia.
Dietro vengono proiettate immagini minimali, tasselli geometrici che provano ad accostarsi senza riuscire ad aderire l’uno con l’altro, terriccio lanciato su una superficie e poi costantemente ripulito da una spatola meccanica…tutto mentre si snoda un impasto sonoro che sembra votato a riempire il silenzio cosmico avventurandosi in territori che solo pochi hanno percorso, Tagerine Dream tra questi. Sicuramente l’acustica ineccepibile dell’auditorium ha dato un grande incentivo alla resa dei pezzi ma raramente una musica dal vivo è riuscita, con tale semplicità e potenza, a trascinare una platea in una tale dimensione di profonda, desta quiescenza.

TAME IMPALA. Si presenta il primo giorno uno dei gruppi più attesi del festival, arrivato al secondo album (Lonerism 2012), quello della consacrazione, e portando con se grandi aspettative. Assolutamente non deluse. Direttamente dalla prolifica scena australiana neo psichedelica, la creatura di Kevin Parker si presenta sull’enorme palco Heineken quando il sole deve ancora tramontare, orario non facile e migliaia di persone ad attendere l’inizio, situazione bastante a mettere pressione a band più navigate.
P1010920I cinque ragazzi di Perth, per l’occasione presentando per la prima volta il nuovo bassista, non battono ciglio e dopo un paio di canzoni riescono a scaldare una folla per costituzione piuttosto freddina.
Le canzoni sono orecchiabili, quasi pop, miscelate semplicemente dalla voce eterea e lennoniana di Parker, vero showman/sballato-compagno-di-banco, che scherza col pubblico ostentando una sicurezza tranquillizzante. Se l’esecuzione dei pezzi non è sempre perfetta, e ci si mette pure un problema tecnico, ci pensa la giovane prontezza e l’atmosfera creata a tappare ogni buco mentre il buio si avvicina rendendo lo show un tripudio di luci e sonorità lisergiche.
Ogni canzone è un tuffo in un vaso di colori, il vento, le nuvole, tutto si fonde in un caleidoscopio il cui centro sono loro, i nuovi delfini del rock, che per un ora ipnotizzano un pubblico immenso con una facilità disarmante. Grandiosi.

Tanti altri sono stati gli artisti entusiasmanti ed entusiasmati, magari alla loro prima prova in un festival o gratificati da un’accoglienza calorosa e unica che ha permesso a tutti, dal primo all’ultimo, più giovane o maturo, di mettere davvero l’anima in una cornice che poteva apparire modaiola, snob e troppo commercializzata: gli Animal Collective, con un palco addobbato per assomigliare alla bocca di una creatura muppettiana; o i Dead Can Dance che hanno fatto rabbrividire all’unisono migliaia di schiene grazie alla voce impareggiabile di Lisa Gerrard; i Grizzly Bear e i loro cori inappuntabili, tessitori di melodie struggenti; l’incredibile energia dei Django Django che alla loro prima prova hanno messo in piedi uno show capace di far scatenare anche il più quieto degli ascoltatori; o Mulatu Astatke, Crystal Castle, Nick Cave e tutti gli altri.
Ma nessuna parola può colmare la lacuna di qualcosa che per essere pienamente apprezzato e ricordato va assolutamente visto ed ascoltato; soltanto dal vivo la musica può spandere quel suo impareggiabile potere, un potere che è un emozione accresciuta infinitamente dalla condivisione.

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Immagine in evidenza tratta da Pitchfork