Evasione ed Elusione di imposta: la sottile linea rossa

Occupandoci dell tema dell’evasione fiscale, nella forma specifica di una determinata tipologia di frode, abbiamo esplorato il nucleo nel quale la violazione di una norma fiscale si estrinseca: vale a dire, quella che nella giurisprudenza anglosassone è definita tax offence, ovvero la lesione dell’interesse dello Stato a percepire correttamente i tributi, ed in particolare le imposte.

Negli ultimi anni, sempre più spesso, tuttavia, si è assistito alla nascita di casi nei quali, di fronte ad una operazione economica apparentemente rispondente ad una certa norma per il pagamento di una determinata quantità di imposta, in realtà l’imposta pagata in concreto risultava inferiore in quanto l’assetto dell’operazione permetteva, in sostanza, di fare riferimento ad altra e diversa norma, con un obbligo di corresponsione di imposta minore rispetto a quello inizialmente postulato.

In casi simili, quindi, non si ha una evasione di imposta, poiché non si evita il pagamento tout court, bensì si versa alle casse del Fisco una somma inferiore a quella che, per così dire, si sarebbe dovuta elargire se si fosse adottata la soluzione “più costosa”. Come affrontare casi simili allora, laddove, da una parte, il Fisco avanza le proprie pretese reclamando la differenza di imposta che assume dovuta e, dall’altro, il cittadino, forte della possibilità offertagli dalle norme scelte per “costruire” la sua operazione, rivendica il proprio “diritto” a “pagare meno, potendolo fare”?

Il problema, nella sua sostanza, non è di poco conto, né, in realtà, così nuovo, né per le aule di Giustizia, né per i Legislatori.

Sembra, infatti, che già la Camera dei Lord britannica, nel 1936, sul caso Duke Of Westminster, affermò il principio per il quale «Nessuno è tenuto a costruire il proprio fienile in modo che il Fisco vi entri con il forcone più grosso», e malgrado siano passati quasi ottant’anni, il problema è più che attuale.

Senza voler complicare troppo il discorso, va segnalato subito, ad esempio, il fitto intreccio di riflessi che il problema pone, primo fra tutti quello di stabilire se esista un principio, nell’ordinamento italiano, che vieti comportamenti come quello dell’esempio di sopra, e, dunque, in quale fattispecie di divieto possa rientrare nonché, conseguentemente, quale sia la linea di confine che separa l’evasione dall’ “altra cosa” che deriva dalla condotta di “risparmio” di imposte, alla quale convenzionalmente è stato dato il nome di elusione di imposta  (tax avoidance).

Di più: una volta ammessa la rilevanza penale dell’evasione, punita, abbiamo visto, dai reati fiscali tutti contenuti nel D.Lgs. n. 74 del 2000quid iuris per l’elusione? ossia, cosa succede se il Fisco sostiene che io ho eluso l’imposta? si deve prevedere anche una denuncia per reato fiscale?

Ed in effetti, il punto più problematico, indubbiamente, è proprio quello delle possibili conseguenze penali nel caso di qualificazione di un comportamento come elusivo. Prima di tentare uno sguardo per capire meglio i nodi della questione, tuttavia, occorre fare un passo indietro.

Infatti, va chiarito che il legislatore tributario italiano, già da qualche anno, ha introdotto una disposizione all’interno delle Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi con la quale ha provveduto a negare, se così si può dire, valore giuridico, a tutte quelle operazioni che, di fronte ad un accertamento fiscale, risultino, secondo il testo della norma,  “di una valida ragione economica” (cfr. art. 37-bis D.p.r. 600/1973).

L’architettura della disposizione si giustifica in base al fatto che, spesso, le operazioni realizzate dai contribuenti per “pagare meno tasse” implicano, nella loro natura, un risvolto parallelo e corrispondente, che consiste nella poca “economicità” dell’operazione stessa, e qui, inevitabilmente, il quadro, dal punto di vista del rilievo penale, è destinato a complicarsi.

E’ chiaro come ogni singolo caso concreto presenti delle peculiarità difficilmente paragonabili “in assoluto” alla generalità di tutti gli altri, e dunque la difficoltà, di volta in volta, di ritenere un’operazione elusiva invece che preordinata ad una e vera e propria evasione è altrettanto evidente.

Cerchiamo, allora, di delineare alcune delle linee guida adottate dagli operatori e gli interpreti a districarsi nel problema. Come primo passo, è bene dare conto di come, all’interno dei commentatori, in tema di rilevanza penale dell’elusione, si siano create due scuole di pensiero.

Da una parte, chi sostiene l’irrilevanza penale delle condotte elusive, sostenendo che nell’ambito delle stesse i comportamenti tenuti sarebbero di per sé leciti, non realizzando alcun “sotterfugio” simulatorio per occultare una situazione mascherandola, cosa che invece normalmente avviene nei casi di artifici fraudolenti tipici delle operazioni nelle quali lo scopo è evitare del tutto l’obbligo di imposta. Secondo questa parte della dottrina, quindi, attraverso la condotta elusiva non si formerebbe alcun genere di “inganno” e, pertanto, non ricorrerebbero né quegli “elementi passivi fittizi” né quella indicazione di elementi attivi per un ammontare inferiore a quello richiesto, condizioni espressamente richieste, ad esempio, per quello che generalmente è stato il reato al quale le fattispecie elusive sono state ricondotte in sede di giudizio (su cui subito oltre), vale a dire il reato di dichiarazione infedele di cui all’art. 4 D.Lgs. 74/2000.

Dall’altra, chi sostiene, invece, il rilievo penale dell’elusione facendo essenzialmente riferimento ad alcune delle disposizioni che, sempre all’interno del D.Lgs. 74/2000, giustificherebbero la punibilità delle condotte elusive sotto tre profili: a) se il legislatore avesse voluto prevedere la definizione di imposta elusa alla quale assegnare un trattamento giuridico differente da quello delle sanzioni penali previste per l’imposta evasa l’avrebbe espressamente contemplata (criterio dell’ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit) ed in ogni caso la nozione di imposta evasa fornita dall’art. 1, lett. f), del Decreto 74 sarebbe, secondo alcuni, così generica da ricomprendere anche l’imposta elusa. b) data la previsione, da parte dell’art. 7 decreto 74, di specifiche esimenti di fatti punibili in relazione a violazioni di criteri prettamente tributari come quelli di determinazione dell’esercizio e quelli di rilevazioni e valutazioni estimative, si potrebbe assegnare rilevanza penale generale, (ai fini dei reati di dichiarazione fraudolenta e infedele di cui ai relativi articoli 3 e 4 del decreto 74) ad esempio a tutti quei costi (elementi passivi) non deducibili in ogni caso nel quale la loro indeducibilità derivi da quelle stesse violazioni. Il che, ragionando a contrario , consentirebbe di ritenere che dia luogo ad uno dei reati menzionati anche l’indicazione di costi indeducibili in quanto derivanti da condotte elusive. c) In particolare, sarebbe l’articolo 16 del Decreto 74, rubricato Adeguamento al parere del Comitato per l’applicazione delle norme antielusive, a costituire una sorta di controprova della rilevanza penale dell’elusione, nella misura in cui si prevede come non possa mai essere ritenuta punibile e penalmente rilevante una qualsivoglia condotta che – previamente sottoposta al vaglio del Ministero delle finanze o del comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive previsto dall’art. 21, legge n. 413/91 – sia stata tenuta secondo quanto indicato nel parere formulato a seguito di tale interpello o a seguito di silenzio da parte dell’autorità chiamata in causa, avente valore di silenzio-assenso.

La questione in sé rimane, pertanto, aperta.

Un terreno di scontro particolarmente “acceso” pare essere dato proprio dalla casistica rispetto alla quale l’elemento centrale di contrasto nella riconduzione o meno di una condotta elusiva all’interno dell’area di rilevanza penale è rappresentato dai costi fiscalmente indeducibili, spesso equiparati ai costi “fittizi”, gli unici previsti dalle fattispecie di reato sopra citate.

Infatti, spesso, a fronte di casi concreti dove la contestazione, da parte del Fisco, di una dichiarazione dei redditi infedele perché connotata da costi considerati fiscalmente non deducibili, abbia avuto anche il risvolto della denuncia penale alla Procura della Repubblica, a ciò nella maggior parte dei casi i Tribunali di merito e la Corte di Cassazione hanno fatto corrispondere uno scenario di contestazione del reato di cui all‘art. 4 del citato Decreto 74.

Il quadro si è ulteriormente inasprito da quando proprio la Cassazione a Sezioni Unite, con le sentenze del 23 gennaio 2008, numeri 30055,30056 e 30057, hanno richiamato, in relazione all’art. 37-bis, l’art. 53 della Costituzione, individuando in esso la fonte di un generale principio antielusivo. Sul versante della dottrina penalistica si è osservato, in modo critico, come in realtà non si possa rinvenire nell’ordinamento penale una sanzione tipica per l’elusione e anche il richiamo ad un generico principio antielusivo, basato sull’art. 53 Cost., resterebbe comunque circoscritto all’ordinamento tributario-fiscale, ma incompatibile con i principi fondamentali dell’ordinamento penale, tra cui il principio di legalità, che ha, come corollario fondamentale, quello del principio di tipicità, secondo cui il fatto che dà luogo all’applicazione della pena, deve essere previsto dalla legge in modo “espresso” e, quindi, mentre esso non può desumersi implicitamente da norme che concernono fatti diversi (divieto di analogia), la fattispecie che lo descrive deve essere formulata con sufficiente determinatezza (principio di tassatività). Cosa che, evidentemente, non accade in materia di elusione dove, come si è detto non sussiste alcuna norma incriminatrice che preveda chiaramente la punibilità di condotte definite elusive.

In questo scenario, connotato da non pochi caratteri di incertezza, il tenore “ampio” della disposizione che prevede il reato di dichiarazione infedele ha contribuito, secondo molti commentatori, ad aumentare le possibilità di ricondurre sotto il fuoco di quella stessa norma comportamenti di fatto elusivi: è stato da più parti osservato, infatti, come il delitto in discorso (art. 4 D.Lgs. 74/2000) sia caratterizzato da una tale “ambiguità” da non escludere tendenzialmente la punibilità del contribuente il quale, facendo ricorso ad operazioni tese sostanzialmente ad un risparmio di imposta e, dunque, in linea di principio, elusive, indichi in dichiarazione una base imponibile inferiore rispetto a quella che “avrebbe dovuto” indicare.

Vero è che altri commentatori hanno definito l’elusione come il ricorso a procedimenti leciti che consentono di non realizzare la fattispecie imponibile, o di realizzarne una meno onerosa per il contribuente, purché l’operazione venga realizzata in uno schema negoziale dotato di validità giuridica. Così come è anche vero, lo si è visto sopra, che per parlarsi di elusione rilevante per l’ordinamento ci si deve trovare di fronte ad una operazione che sia priva nei fatti di una valida ragione economica.

Alla luce anche di queste elaborazioni, tuttavia, il concetto di elusione risulterebbe ancora più incerto. E dunque, quantomeno come criterio di demarcazione tra l’area del penalmente rilevante e quella del rilievo solo fiscale delle condotte, apparirebbe preferibile recuperare il sopra citato principio di tipicità. In questo modo, la distinzione fondamentale tra condotte implicanti evasione e condotte elusive sarebbe rappresentata dal fatto che, mentre le prime trovano puntuale riscontro in uno dei reati previsti dal D.Lgs. 74/2000, le seconde non risultano direttamente riconducibili ad alcuna fattispecie incriminatrice.

Se a ciò si aggiunge, come detto sopra, che nell’elusione è fondamentale il dato di corrispondenza tra realtà dell’operazione e realtà documentata nella dichiarazione a fini fiscali (compio una determinata operazione che mi consente di pagare un’imposta minore e pago l’imposta che dichiaro), l’area di separazione dal concetto di evasione appare ancora più netta. In effetti, con tali premesse, verrebbero meno i presupposti per far ricadere le condotte di elusione nel reato di dichiarazione infedele laddove, richiedendo la norma la presenza di costi fittizi (cioè inesistenti nella realtà), non si potrebbero paragonare ad essi quelli realmente sostenuti per l’operazione considerata elusiva. Allo stesso modo non risulterebbe integrato l’articolo 3 del decreto 74, ossia la dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, dal momento che essendo l’operazione avvenuta e documentata “alla luce del sole”, difetterebbe proprio il connotato necessario della fraudolenza.

Nei fatti, tuttavia, il dibattito ad oggi rimane aperto, continuando a registrarsi, in giurisprudenza, una corposa oscillazione tra pronunce tendenti ad escludere l’illecito penale e altre motivate invece nel senso di ritenerlo integrato, particolarmente, si è detto, nelle forme dell’articolo 4 del Decreto 74 nei casi di costi qualificati come non deducibili.

Un primo pronunciamento volto a fare chiarezza nell’intricato problema in questione è arrivato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 7739/2011 (nota come “caso Dolce & Gabbana“) che, non escludendo la rilevanza penale tout court dell’elusione, la limita alle ipotesi nelle quali la condotta elusiva ricada sotto la previsione di una specifica disposizione fiscale antielusiva, ponendo la necessità di ricercare di volta in volta una specifica e puntuale norma ad hoc.

La tesi della Corte, ripresa poi in altre e più recenti sentenze, pur non esente da critiche – come inevitabile in un tema così incerto – continua a rappresentare, ad oggi, la posizione costante dei giudici di legittimità, alla luce della quale leggere i casi pratici che, nelle more di un’indagine penale, abbiano tutti i requisiti per essere qualificati elusivi.

Tommaso Sabbatini

Bibliografia essenziale:

A.LANZI – P.ALDROVANDI, Manuale di diritto penale tributario, ed. CEDAM, 2011

D.TERRACINA, Riflessi penali dell’evasione fiscale, ed. DIKE Giuridica Editrice, 2012

 

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