Raymond, mon ami. L’arte di Queneau

“Il venticinque settembre milleduecentosessantaquattro, sul far del giorno, il Duca d’Auge salì in cima al torrione del suo castello per considerare un momentino la situazione storica. La trovò poco chiara. Resti del passato alla rinfusa si trascinavano ancora qua e là.
[…]
-Tutta questa storia,- disse il Duca d’Auge al Duca d’Auge, – tutta questa storia per un po’ di giochi di parole, per un po’ di anacronismi: una miseria. Non si troverà mai via d’uscita?”

(I fiori blu)

A me sembra che tutta l’attività intellettuale di Raymond Queneau fu un movimento di ricerca della via d’uscita agognata per lui dal Duca d’Auge: dalla confusione del mondo, dalle aporie dell’intelletto umano dinnanzi a esso. La sua lucida e incontenibile mente scorgeva il marasma dei particolarismi del reale, delle loro contraddizioni. Infinite le articolazioni della realtà nello spazio-tempo, infiniti gli approcci conoscitivi dell’uomo. D’innanzi a ciò, l’istinto di Queneau fu certo classicista, tutto teso verso l’unitarietà, la sintesi armonica dell’inaccordabile: ne derivò un’insofferenza ai limiti delle competenze specialistiche, l’interdisciplinarietà eletta a strumento di possesso intellettuale del mondo, lo smisurato enciclopedismo dei saperi capace di coordinare matematica e spiritualismo. E l’ironia e il distacco di chi riesce a scorgere l’interezza.

queRaymond Auguste Queneau nacque, nel 1903, a Le Havre, importante porto e polo industriale della Francia della Terza Repubblica. La città, che restò sempre un nucleo gravitazionale importante nell’universo dell’autore, soprattutto nel confronto con Parigi, fu abbandonata da Queneau già nel 1920, quando egli partì alla volta della capitale, per avviare i propri studi di filosofia all’Università della Sorbona. L’intelletto del giovane provinciale, vorace e onnivoro, lo portò a cimentarsi con raro fulgore in diversissime discipline, a farsi strada con autonomia nei e trai movimenti intellettuali. Filosofo, logico, matematico, dissacrantemente patafisico, letterato, romanziere, poeta, saggista. Surrealista, intimo sodale di Breton, poi, alla rottura, suo grande oppositore. D’altronde, quella di Queneau fu la scienza esatta dell’illimitatezza: egli valicava qualsiasi limite imposto, per comprendere e creare obbedendo soltanto ai nuovi limiti del proprio artificio letterario. Quello che forse è il più grande lettore italiano dell’opera di Queneau, Italo Calvino, ebbe a dire:
“Chi è Raymond Queneau? Di primo acchito la domanda può sembrare strana, perché l’immagine dello scrittore appare ben netta a chiunque abbia qualche familiarità con la letteratura del nostro secolo e con quella francese in particolare. Ma se ognuno di noi prova a mettere insieme le cose che sa su Queneau, quest’immagine assume subito contorni segmentati e complessi, ingloba elementi difficili da tenere insieme, e più sono i tratti caratterizzanti che riusciamo a mettere in luce, più sentiamo che altri ce ne sfuggono, necessari per saldare in una figura unitaria tutti i piani dello sfaccettato poliedro.”[1]
Per prendere in prestito l’immagine offerta da Calvino, mi preme sottolineare che l’universo di Raymond Queneau è eminentemente una realtà poliedrica, ovvero strutturalmente geometrica. Essa è un solido, è una scultura tangibile e organizzata secondo la più classica ratio speculativa e interpretativa. È la materia di cui si compone a essere illimitata e inafferrabile; in questo senso, la poetica di Queneau è mimesi della realtà.

Qualche parola, per iniziare, sul Queneau poeta. In vita pubblicò, escluse dunque le raccolte postume, tredici libri di versi. Fu una carriera poetica lunga e, per sua stessa ammissione, segnata da un percorso di ricerca e miglioramento, attraverso stili ed esperimenti. Soprattutto, la sua fu poesia di ricerca e studio nella lingua e sulla lingua attraverso essa stessa, che sta a sua volta nel mondo, nella storia. Cosa è la lingua? In che rapporti si pone con l’esigenza creativa? Qual è il suo ruolo nella società umana? Può essa essere libera e liberata? In particolare, Queneau si mosse alla ricerca di un moderno classicismo, nella convinzione che l’intento comunicativo non possa prescindere da un’organizzazione strutturale razionale e armonica. “Il poeta non è mai ispirato”, dichiarò Raymond Queneau, sostenendo piuttosto il ruolo di indagine e comprensione della creazione linguistica: la materia è in noi e nel mondo e da qui, mediante la lingua, ci trascende. Il verso opposto non potrebbe essere altro che illusoria romanticheria. In una tendenza tipica di tutta la sua produzione, i piani della storia privata e collettiva, del presente e del passato, iniziano a confondersi sin dalla primissima produzione. Ed è nella lingua che il poeta può comprendere l’assenza di soluzioni di continuità tra i diversi piani del reale; è nella narrazione che può proporre la propria strutturazione dell’instrutturabile. La ricerca è spasmodica e irrefrenabile, si sposta con agilità e impegno tra gli stili e gli esperimenti, che costituiscono i passi di un percorso poetico lungo una vita.

“Mi sdraiai su un divano

e mi diedi a raccontare la mia vita,

ciò che credevo fosse la mia vita.”

Appare chiaro: è il raccontare che svela, come sua conseguenza, l’illusione e, dunque, la realtà.
Cito, come suo primo reale capolavoro poetico, Chêne et chien, che sin dal titolo porta il significato del viaggio. Chi sono la quercia e il cane? Essi sono i due elementi costitutivi della natura dell’autore, che si fonde con il mondo. La quercia è la nobiltà e la forza di stare e resistere al mondo nell’appartenenza a una tradizione; il cane è la cinica aggressività del hic et nunc imprevedibile. Questa ambivalenza è il vivere storico, nel quale i confini tra l’esistenza intima e quella collettiva si dissolvono, dove il presente si narra rielaborando i miti d’infanzia. E la forma dell’opera non poteva non essere quella del romanzo in versi. Il ritmo e la musica della lingua, sì, ma la narratività della ragione. Nell’indagine linguistica, le parole dell’infanzia associano ai significati intimi quelli condivisi, raccontando così l’Uomo e la sua storia. Unità e particolarità, come si vede, coincidono non tanto nei fatti, quanto nel significato definitivo che non si smette di ricercare:

“A partire dal deserto,

si prende la strada

a partire dalle oasi svariate

verso l’unità”

(A’ partir du désert, 1926)

Io credo che, proprio a motivo di questa esigenza narrativa che sempre contraddistinse il nostro autore, e dati i luoghi di questo mio contributo che impongono una selezione, sia significativo passare a occuparci del romanziere.

La carriera poetica di Raymond Queneau fu decisamente più burrascosa di quella narrativa, che di contro presenta una godibile unitarietà. E’ di certo la compattezza tematico-stilistica della sua opera in prosa, pur nella varietà, ad aver consentito la codificazione di quel bagaglio di immagini che con una certa immediatezza può essere ricondotto alla narrativa di Queneau. E’ innanzitutto da evidenziare quella che potrebbe essere definita come la “prerogativa reale” che Raymond Queneau credeva che lo scrittore dovesse arrogarsi. L’atto del narrare è per l’autore il momento supremo della Letteratura: è a esso che devono piegarsi tutte le altre istanze. Non vi sono realismo, cronaca o sentimento che possano condizionare l’abilità scrittoria del romanziere, potere supremo fedele soltanto a ciò che egli, mediante la propria opera, vuole far esistere. Uno dei procedimenti narrativi più indicativi di questo approccio è quello di “amministrazione” dei personaggi; dove per personaggi, si badi bene, credo si debba intendere in Queneau ogni elemento rappresentato, che egualmente partecipa alla storia. Quando, dunque, un personaggio appare, Queneau struttura la sua permanenza, con matematica esattezza, secondo un movimento parabolico. I primi contorni sono sempre vaghi ed evocativi, in grado di creare aspettativa nel lettore e poco più. Nel procedere della narrazione, poi, il personaggio prende sempre più corpo, divenendo reale e tridimensionale, arrivando ad assolvere il proprio compito. Giunto al culmine, esso torna poi a sfumare, degradando verso la fine. Tutto è nelle mani dello scrittore e risponde alle sue esigenze; è altresì fondamentale comprendere che nell’opera di Queneau tutto è introdotto per uno scopo, ogni pistola sparerà il proprio colpo. Ad amministrare il carousel dei mondi del nostro autore è l’insondabile Caso, la sua fatalità, nella perfetta riproduzione letteraria di Queneau, che così fonda nuove realtà, autonome dalla nostra ma altrettanto drammaticamente coerenti.

Questi universi si compongono intorno ad alcuni grandi temi. Tra questi, il caso più straordinario è senza dubbio quello del linguaggio, che è al contempo materia e mezzo, narrazione che parla di sé. Gianni Poli ha sostenuto che “l’autore si fa così responsabile di una straordinaria impresa, rendendo materia d’invenzione e di poesia ciò che altrimenti appartiene alla linguistica. Poiché a partire dalle prime prove, egli s’è applicato alla lingua non solo come mezzo di espressione-comunicazione, ma l’ha oggettivata a movente e scopo del suo artistico operare.”[2] Il linguaggio, mediante lo studio linguistico al quale assiduamente si dedicò, è vero protagonista dell’opera di Queneau, in quanto l’operazione di selezione linguistica è propedeutica alla strutturazione narrativa: ogni fatto narrato avviene primariamente entro i confini della lingua, è composto fisiologicamente di elementi linguistici e dunque è dal sistema linguistico che assume contorni e legittimità. È comprensibile quanto lontano fosse il nostro autore dalla visione di una lingua istintuale e genuina, sferzando sempre con gusto la propria ironia contro i più sterili realisti, copisti della realtà. Ne discende, inoltre, la polemica contro l’ispirazione dell’attimo, come se un poeta potesse ricevere in un solo istante il genio e il materiale per comporre la propria opera; secondo Queneau, piuttosto, essendo il pensiero umano essenzialmente linguistico, tutto l’universo delle possibilità narrative è sempre a disposizione di uno scrittore, che dunque non può che procedere mediante analisi, speculazione, organizzazione. Il linguaggio come mezzo e materia, dunque, ma anche come tema e motore, se si riflette sui tanti luoghi in cui si scorge, in Queneau e nella vita, il ruolo delle dinamiche linguistiche come cause efficienti degli sviluppi e degli intrecci delle storie. E la Storia tutta, se si torna a leggere la mia primissima citazione dalle parole del Duca d’Auge, diviene in extremis un interminabile sbarleffo linguistico.
Per sua stessa dichiarazione, fu di grande importanza, nella sua formazione, la vague filosofica di quegli anni, che rivoluzionava completamente la concezione del Tempo. Vicino al Surrealismo e affascinato dallo Spiritualismo, ammiratore e studioso di Proust e Joyce, Raymond Queneau non poté non porre al centro della propria riflessione il concetto di Tempo e in particolar modo la condizione di essere-nel-tempo della Storia e delle storie di ciascuno. E di certo ebbero forte influenza la sua preparazione da matematico e patafisico. Quello delle opere di Queneau, sia poetiche che in prosa, è un tempo fluido e tangibile, che scorre nel mondo e attraverso la sua materia, i suoi personaggi. E’ come se tutto fosse immerso in un unico liquido vitale, nel quale ciascun elemento condiziona ed è condizionato da tutti gli altri, rendendo impossibile qualsiasi discernimento. Così, il tempo muta i personaggi e le cose; questi scandiscono il tempo, in un legame di oggettività e soggettività privo di soluzione di continuità, mediante gli attimi della propria vita interiore; le azioni e i movimenti nello spazio divengono azioni e movimenti nel tempo; la Storia sta nel tempo, così come il tempo è un fatto storico. Cito solo alcuni esempi, che mi sembrano mostrare questi giochi con lampante evidenza e che fanno emergere quanto, soprattutto, Queneau avesse caro il rapporto tra spazio e tempo, nello spostamento all’interno dei quali ha fatto avvenire i movimenti dell’anima dei suoi personaggi. Questi, tra l’altro, portano i segni di questa mescolanza di dimensioni e istanze, dei loro cortocircuiti, nel caratteristico muoversi scattosamente, in disaccordo con il mondo, con scariche di energia violente e drammatiche.Immagine Si pensi a Pierrot (Pierrot amico mio), che nelle proprie vicissitudini compie dei viaggi che non mutano un tempo di vita che ricade sempre uguale a sé stesso, per poi votarsi all’antico mausoleo dietro casa, che nella sua assenza di movimento spaziale afferma il proprio rappresentare la Storia nel Tempo, pur restando intatto da esso (mirabile la contrapposizione con il luna park, che in quanto luogo di divertimento è tempio della momentaneità e del movimento, che si ritrova a durare meno delle stesse bieche risate che suscitava). C’è poi la piccola Zazie (Zazie nel metrò) che, proveniente dalla provincia agreste, vagabonda per un’intera giornata per la travolgente Parigi, portando in sé la contraddittoria sintesi tra vitalità che vuole essere nel mondo e destrutturazione semantica della società e del suo linguaggio mediante il suo esser fuori; la bimba, alla fine del suo caotico pellegrinaggio, avrà fatto un’unica magra conquista: l’essere invecchiata. Su tutti, poi, il viaggio del Duca d’Auge (I fiori blu) attraverso la Francia e la sua Storia, in una corrispondenza geniale tra movimento spaziale e temporale, che partendo dal Medioevo lo porta a incontrare Cidrolin, sfaccendato contemporaneo, suo doppio e altra faccia di quell’irrisolvibile gioco di proiezioni oniriche che, ormai da tempo, li aveva fatti conoscere. In questi meccanismi ricorrenti, si innestano poi gli altri grandi temi sui quali Queneau costruì le proprie architetture, spesso per contrapposizione: la gioventù e il disfacimento, la malattia e la morte, la campagna e la città, l’inattività e la frenesia, il sogno e la realtà. Gli elementi che sorgono nelle dimensioni create da Queneau sono, in fin dei conti, le grandi forze che regolano la vita dell’uomo: nulla di straordinario, che vada cioè al di là della realtà da noi verificabile. Eppure, leggendo le sue opere si avverte sulla pelle un intramontabile senso di paradosso, di precarissimo equilibrio del cosmo e dei cosmi di ciascuno. Camminare per le vie di Queneau è come andare di balzo in balzo, in una realtà lunare, onirica. Cosa è, dunque, questa instabile gravità, se ogni elemento sfruttato dall’autore è incontrovertibilmente elemento del reale? E’, io credo, il risultato grandioso di un classicismo moderno, fortemente voluto e cercato, che in Queneau è sempre esercizio di ironia, poiché non riproduce l’oggetto, quanto piuttosto la regola che lo determina. Egli non fu pittore, né inventore: fu scienziato. Raymond Queneau non fotografò la realtà, né ne invento di nuove, piuttosto la vivisezionò. E così, con ogni pezzo in mano, poté rimontarla con assurda e crudele armonia. Il filo utilizzato per operare questa sutura fu il genio e il gusto dello scrittore, l’ago la sferzante ironia. Perché, come in un film di Buster Keaton o Charlot, l’assurdo del quotidiano e la beffa delle coincidenze colpiscono l’involontario straniato nelle trame della normalità. Il lucido genio, come certo fu quello di Raymond Queneau, sa però compiere con i suoi mille movimenti un’impagabile quanto, ahimè, inutile rivoluzione: svela il trucco, mostra con divertita rassegnazione il nano dispettoso che manovra l’automa della nostra notissima realtà.

Note:

[1] Calvino, Italo, Perché leggere i classici, Mondadori, Milano, 1981, p. 276

[2] Poli, Gianni, Invito alla lettura di Raymond Queneau, ed. Mursia, Milano, 1995, p. 161.

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