White Noise

Recuperiamo il capo del filo lasciato sospeso con Franzen per affrontare un altro testo fondamentale della letteratura americana contemporanea procedendo a ritroso nel tempo, come a ricercare all’interno della terra quel seme che ha portato al frutto maturato al sole. È così che incontriamo il discorso diretto, il postmoderno stream of consciousness di un professore americano ossessionato dai tedeschi, protagonista e narratore di una vicenda che ha i colori di una pellicola cinematografica.

Entrando immediatamente in media res, si esemplifica qui con chiarezza il dramma umoristico di una società rassicurata e protetta dalla consapevolezza di una conoscenza approfondita ed esplicativa, la quale però – nella sua pretesa di controllo e assoggettamento della paura – non può tenere a bada ciò che diviene perciò tanto più terribile e incontrollabile: la morte. Le lettere nere di cui è composto il romanzo Rumore Bianco (Einaudi, Torino, 1999) di Don DeLillo galleggiano sul bianco della pagina come smozzicate impressioni emerse dall’onnipervasivo pensiero della morte; anche in questo testo, come ne Le Correzioni, l’ossessionante e inestirpabile termine della vita è l’ultima cosa che all’uomo postmoderno resta da assoggettare. L’unica arma che gli resta è la dissimulazione.

200px-White_NoiseJack insegna protetto da strati di carne in eccesso e occhiali scuri, rassicura le persone più vicine con la volontà di essere rassicurato, blandisce coloro che possono nuocergli nella sua insignificanza. Come professore fondatore della cattedra di studi hitleriani si appoggia alla gigantezza della figura del dittatore per nascondere la propria inappropriatezza nei confronti di un intero popolo di cui invidia la cultura e la concretezza, e di cui non riesce a comprendere la lingua. Una scorza di acciaio che nasconde una flaccida codardia. Ci vengono così incontro i dispositivi americani che rivestono e mascherano questa codardia: informazione, tecnologia, merce e medicinali.

DeLillo è abile nel rappresentare i flash di pensiero alieno derivanti dai martellanti mezzi di informazione: la narrazione è spesso interrotta da discorsi diretti provenienti da radio e televisione che raramente giungono a proposito nelle loro proclamazioni tecniche e metereologiche mentre la mente stessa del narratore è ormai preda di queste incursioni, slogan e marche che irrompono nel testo come incomprensibili formule magiche. È l’uomo il creatore di questi simboli a sé stesso sconosciuti, nomi di autovetture pronunciati nel sonno, voci che dalla televisione spingono ad uccidere e brandelli di narrazioni documentaristiche farfugliati da chi ha ormai perso la ragione.

La stessa struttura del reale subisce una curiosa mutazione quando si trasforma in onde e radiazioni televisive, il volto di una persona nota muta rivestendosi di significati ultramondani e misteriosi, una trasformazione che investe anche le reazioni corporee con sintomi suscitati solo dalla loro menzione televisiva. È l’informazione ciò a cui è demandata la propria sicurezza, ci si spoglia della propria personale opinione e si abbraccia qualunque altro giudizio sia proferito col tono autoritario del telegiornale. Un’informazione che è in realtà la fonte stessa dell’insicurezza creando una conoscenza superficiale, opinabile e contraddittoria.  Un’ambiguità che investe ogni ambito per una modernità che confida in una tecnologia di cui si serve senza conoscerne la struttura e i segreti. «A che cosa serve il sapere, se aleggia nell’aria? Va da computer a computer. Cambia e cresce a ogni secondo di ogni giorno. Ma in realtà nessuno sa niente» lamenta il figlio naturalista e relativista, consapevole di come ogni azione o moto umani non siano che la reazione a una determinata composizione neurale e chimica.

Per chi non riesce a aderire a questa verità scientifica tutto è un mistero familiare, i codici di cui è composta la realtà sono umani ma sfuggono all’umana comprensione e la sicurezza domestica è invasa da radiazioni nefaste. La televisione resta l’ultimo oggetto in grado di rendere le cose significative, dispositivo che rende udibile il cadere dell’albero nella foresta deserta, ciò che rende tragica una tragedia i cui attori sentono di non riuscire più a condividere il dramma tra loro. I manufatti tecnologici che riempiono l’aria dei loro messaggi e ronzii sono già dati, ciò che nascondono è comprensibile solo a una ristretta cerchia di iniziati nella generale conoscenza da quiz televisivo.

I tecnici occupano un posto privilegiato nell’invisibile scala gerarchica facendone dei moderni sacerdoti custodi di un sapere fatto di chimica e raggi X; tecnologia che «produce fame di immortalità [ e ] minaccia l’estinzione universale. Lussuria estrapolata dalla natura»1. Nel bisogno viscerale di nominare le proprie paure, questi iniziati dispongono dei macchinari e delle conoscenze in grado di fornire tutte le definizioni necessarie per sintomi e conseguenze al fine di rassicurare il postulante, previo pagamento, sul suo “essere in forma”. La preoccupazione maggiore in un mondo liberato dalla fatica fisica resta la cura della propria salute, segretamente e costantemente minata dalle radiazioni e dalle sostanze che attraversano gli organi ad ogni respiro. È la grande industria dei servizi che sperimenta in luoghi sconosciuti le formule chimiche necessarie alla composizione di nuovi prodotti irrorando il mercato di beni meravigliosi e l’aria di scorie venefiche. La natura è totalmente assoggettata, modificata e ridotta alla presenza di sparuti insetti, la sua antica pericolosità adesso è proprietà dell’uomo che l’ha trasformata in uno spettacolo allo stesso tempo innocuo e mortale.

Saturazione di ogni spazio, saturazione dei colori che compongono il visibile, saturazione dell’immagine stessa e dell’atto stesso del vedere: gli eventi, gli oggetti, non esistono più nella propria ricezione immediata ma acquisiscono essenza ed importanza solo dopo una approvazione, una rielaborazione dell’altrui giudizio o conseguente al passaggio attraverso una macchina capace di convertirla. È necessaria una premasticazione perché ciò che compare possa essere ingerito senza timore e il mondo della comunicazione su larga scala fornisce punti di vista e suggerimenti di maketing per ogni aspetto di ogni possibile giornata. È così che il tempio della catarsi e delle stimolazioni diviene il supermercato, contenitore della realtà degli oggetti e quindi della varietà del mondo che si oppone alla morte.

La consapevolezza dell’appropriazione di realtà designate, e disegnate, per il proprio benessere e che sopravviveranno alla propria dipartita creano un’ambigua euforia, acquisto di beni che si fa conquista di punti vitali in vista di una tomba piena di tesori. Il supermercato si erge come concentrato di tutta la realtà, la merce e la sua differenza di prezzi si fa tramite di elezione morale e le cifre, i nomi, i colori, le descrizioni dei prodotti sono altrettanti codici per decifrare il tessuto della realtà, mentre le uniche avanguardie a disposizione si trovano nelle superfici delle scatole per cereali. Un luogo di servizio al cliente e di indifferenza, dove si concentra l’interesse per delle categorie massificate di persone.Coloro che sono più soggetti a questa stimolazione sono i bambini, spugne assorbenti di una realtà stracolma che li individua come gruppo, obiettivo primario per i pubblicitari e i produttori di cultura di massa.
L’onnipresenza della pubblicità come un mantra dalle profondissime vibrazioni, la difficoltà di cogliere ciò che non è interno agli schemi del marketing, la produzione di informazione distraente e la coatta importanza foggiata attorno a ciò che è vano: una sovrastimolazione inconscia che porta a una maturazione precoce. La morte è ormai il prodotto che fa vendere più prodotti e un bambino può decidere di affrontarla col suo triciclo per provare a comprenderne il potere di cui tutti parlano.

La base è sempre una ricezione di stimoli così massiccia da renderne difficoltosa l’elaborazione, lo stesso flusso di testo procede per impressioni, shock dal forte impatto emotivo e simbolico, come se tutte le formule e i rituali e le credenze delle religioni umane fossero trasmesse a tamburo battente su uno schermo televisivo. Su tutto ciò non può che regnare la paura dell’insicurezza data dal più estremo dei relativismi e dall’idea di un benessere stordente che prima o poi dovrà essere abbandonato.
In questo coacervo solo un atteggiamento critico sembra salvarsi dal flusso unificatore: Murray, il collega professore al college, diviene mentore nella comprensione grazie al suo sguardo aperto all’interno di tutti i dispositivi della cultura postmoderna. Televisione, Elvis, pubblicità, incidenti d’auto, tutto concorre a una visione lucida dei codici che orientano la realtà producendo un vorace cinismo compiaciuto che porta a un crescendo di violenza come unica soluzione contro la paura. Il risveglio dei moti più profondi e ferini come molla per acuire la percezione e rovesciare la crosta immobilizzante della realtà. Il disfacimento è avvertito ovunque, l’Apocalisse è già sulla porta, solo il crollo di tutto sopravvive come ultima utopia possibile, il pianto disperato ed insensato è l’unico suono in cui immergersi come in una abluzione purificante. Un mondo nuovo e già morto in cui gli anziani sono serafiche sentinelle di una storia che nessuno è più capace di ricordare «la gente era così scema prima della televisione?»2.

Il bisogno più forte resta allora l’essere imbrogliato, nascosto alla velenosa, affollata, incapace di sorprendere, vociante e mortale realtà; una realtà sempre ambigua e inafferrabile dato che i suoi oggetti e eventi sono già stati registrati perché visti da qualche altra parte, al cinema o alla televisione, e perciò già rivestiti di una patina, un filtro che ne ha già strutturato la percezione. La rappresentazione è onnipresente come preformazione del pensiero, volendone uscire non resta che creare un’alternativa, accettandone una che possa ritorcere la propria mortalità e impotenza contro l’altro. Una realtà americana intimamente violenta, terrorizzata e repressa, dove l’unico sogno resta quello della timida uniformazione: impacchettare merce nel supermercato, farsi passare davanti mille persone senza essere visto da nessuno, meccanizzarsi al sicuro da qualunque tipo di minaccia.

Di fronte a ciò lo scopo di DeLillo è quello di creare un nuovo linguaggio letterario per una nuova America, cercando di contenerla tutta tra le pagine del suo romanzo; la scrittura si appropria così di formule burocratiche, elenchi di prodotti o imposizioni del mercato, il tutto soffuso dalla particolare ironia di chi si è abituato alla propria prigione. La scorrevole musicalità del testo contribuisce alla volontà di creare un’opera che permetta a chiunque di confrontarsi con le contraddizioni che formano l’ossatura di Rumore Bianco: la monocromatica vibrazione di fondo non è altro che il suono della Macchina, fruscìo di un sistema costantemente operativo che si alimenta della soddisfazione di bisogni che lui stesso ha contribuito a creare.
L’obiettivo è la “classe” descritta nelle prime pagine del romanzo e di cui fa parte il protagonista, una sorta di medio-alta borghesia fieramente consapevole di rappresentare «un’accolta di persone dai pensieri uguali, dai valori simili, un popolo, una nazione»3. Una congrega formata da individualità soddisfatte, innaturalmente assicurate della loro lontananza da povertà, degrado, mancanza di beni e servizi e generalmente da qualsiasi minaccia o pericolo; rassicurati dal loro essere cliché culturali, già definiti prima di essersi realizzati. Tale condizione esclude, per necessità di sopravvivenza, qualunque cosa ne sia opposta o alternativa: di ciò parla a sufficienza la televisione, la sete di qualcosa di altro si può placare grazie all’immagine, lontani e al sicuro a guardar bruciare i pazzi del manicomio in fiamme. Un mondo di cristallo, protetto e stimolato da un sistema dalle cui crepe a volte erutta qualcosa: la prova, tangibile e travolgente, che quel mondo fragile galleggia in realtà su un mare tanto profondo quanto imprevedibile e inquietante. Così una singola fatalità può sguinzagliare forze bibliche e sconosciute, in grado di sterminare quello stesso mondo costringendolo a nascondersi e fuggire.

Ecco allora il terrore postmoderno: lo scoppio improvviso di un’Apocalisse presentita e non derivante da nessuna guerra, ma dai servizi offerti al cliente; un prodotto pensato per eliminare i parassiti improvvisamente rischia di sterminare tutti gli utenti. Solo un evento devastante e spettacolare, vissuto in prima persona, può provare a ristimolare una riflessione ottusa e smorzata, risvegliare vecchie paure e domande che il silenzio mediatico e la posticcia assicurazione del cessato allarme riescono, anche se a fatica, a far tornare nella quieta normalità. Solo in questi momenti si riescono a intravedere i serbatoi, le turbine, gli scarichi e i nastri trasportatori della macchina servizievole e mortale; una macchina che necessita di una singola divisione, i controllori e i controllati; con i secondi ad affidarsi alla fallibilità dei primi, i quali fondano la propria legittimità sulla sempre nuova capacità tecnologica e la conoscenza di uno specifico latinorum, stregoni high-tech della contemporaneità.

Così sopravvive il senso di minaccia in una società fondata sulla violenza repressa e sulla guerra esportata, sulla pena di morte e il culto delle star. Una minaccia che l’informazione massificata promuove costantemente, consapevole del suo appeal e nella missione volta a rendere manifeste le paure senza farle conoscere davvero; una dinamica di annunci improvvisi, profondi e pieni di ramificazioni ma presto dimenticati per poter passare ad altro, un modus operandi assorbito dagli stessi fruitori: la conoscenza profonda e spaventosa viene infatti zittita nella conversazione dalla fiumana di superficiali informazioni nozionistiche.
Così è anche lo stile di DeLillo – ex studente di Communication Arts e conoscitore di tali dinamiche – il quale produce sacche capillari di riflessione, impressioni, domande e conoscenze slegate tra loro ma dipendenti l’una dall’altra; un incomponibile mosaico fatto di speculazione pigra, nozionismo e humor autoironico e navigato, dove l’allusione a qualcosa di aleggiante e indefinito è sempre presente come carattere distintivo di un’impossibile definizione. Gli attributi non vengono quasi mai da soli e sono quasi sempre evocativi, colpo d’occhio e impressione allenati nell’affinata pratica del giudicare socialmente e culturalmente l’altro senza osare un’approfondita disamina del proprio stesso giudizio; la scrittura prende corpo delineando individui che non danno vita a un proprio milieu culturale ma vivono secondo il giudizio culturale con cui gli altri, e qualcuno per gli altri, ha già ricolmato la contingenza. In questo senso il mondo accademico di cui Jack fa parte risulta essere uno specchio privilegiato per comprendere le radici culturali di questa apparente superficialità.
Il dipartimento di cultura popolare è infatti popolato da docenti assunti «per decifrare il linguaggio naturale della cultura, per trasformare in metodo formale le splendide piacevolezze da loro conosciute nell’infanzia trascorsa all’ombra dell’Europa, un aristotelismo fatto di involucri di chewing-gum e di canzoncine dei detersivi»4. La loro analisi è radicata nella contemporaneità di ciò che hanno vissuto, un nozionismo elencativo privo di qualunque intento sovversivo, quanto piuttosto compiaciuto e divertito dalla propria arguzia e competenza, sfoggiata in sala mensa lanciandosi cibarie vicendevolmente; seguaci del popolare a tutti i costi e creatori di un estetica fatta di collage di estetiche precedenti.
L’unico che tenta di discostarsi dalla norma è Murray, quintessenza del postmoderno come pastiche di tutto ciò che è possibile, il quale riconosce in ogni cosa un testo in grado di parlargli attraverso segni interpretabili al fine di rivelare una più profonda e quasi mistica verità; il suo intento è quello di superare lo svanimento cerebrale prodotto dalla sovrastimolazione per riconsiderare la propria percezione e portare alla luce ciò che è latente intorno e dentro gli altri. Anche la sua ricerca però nasconde una simulazione, un bisogno di mettere alla prova la propria capacità di salvare qualcosa che finge di morire e non può essere salvato; in grado di rispondere a qualunque domanda, è fieramente soddisfatto della propria vergognosa distanza da ciò che è accettato e riconosciuto.

Questo senza perseguire scopi rivoluzionari, bensì seguendo un intimo sentimento di innocenza e divertimento che permette di essere affermativi di fronte a qualunque catastrofe, ricercando una semplicità pragmatica che albergherebbe nel cuore di ogni valore e produzione americana: la fierezza patriottica del sapere di essere nel giusto. Una conoscenza che si serve dell’illusione per fini pratici, ricerca soluzioni in ogni possibilità offerta dalla propria società fino a sfociare nelle uniche soluzioni: affidamento alla tecnologia, rimozione e camuffamento come unica possibilità per la sopravvivenza e infine violenza come rivelazione piena del proprio intimo e nascosto desiderio. Non è un caso che la pistola di fabbricazione tedesca affidata a Jack provenga dal vecchio padre di sua moglie, una violenza ereditaria, da sempre sottintesa nel tessuto delle cose e in grado di rivestirle di significati più forti e universali.

Perché di significato vero e proprio non si può mai parlare, per questo la scrittura di DeLillo è allusiva; sembra ammiccare a una realtà che finge di esistere al di là delle cose mentre i periodi si rincorrono con smagliante vividezza nel loro opporsi all’opacità di ciò che sta al di là di essi: il gioco senza fine dei significati e delle parole volti a nominare eventi ed oggetti. Alla fine nulla si compie, nulla porta cambiamento o soluzione, tutto ciò che può essere fatto è assistere, lasciarsi sommergere dall’immagine, osservare morire il tramonto artificializzato senza riuscire a capire se ciò che si vede debba spaventare o colmare di piacere. La paura non si sconfigge con nessuno dei rimedi moderni, non c’è medicinale o nuova religione che possano lenirla; inutile cercare qualcosa di più, « tutto ciò di cui abbiamo bisogno, che non sia cibo o amore, lo troviamo nelle rastrelliere dei tabloid »5.

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 NOTE

1.  Don DeLillo, White Noise, London and New York: Picador and Viking Penguin, 1985, trad. it. M. Biondi, Rumore Bianco, Einaudi, Torino, 1999, p. 340
2. Ivi, p. 299.
3. Ivi, p. 6.
4.  Ivi, p. 12.
5.  Ivi, p. 389

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