Una domanda di interculturalità

Ogni questione umana che non tenga conto dell’interculturalità rivela ancora la sindrome colonialista, cioè mono-culturale, e non può trovare una risposta soddisfacente perché mal impostata. La mono-culturalità porta all’identificazione di un problema umano con la cornice culturale necessaria alla sua formulazione. Conoscendo un solo linguaggio sarà molto difficile distinguere il vocabolo dal proprio significato. Il nome non è la cosa, ma se questa ha un solo nome chi nega il nome nega anche la cosa.»

La difficoltà nel confrontarsi con se stessi è all’origine della frattura tra sé è il mondo e nella scala microscopica di un solo essere umano si può rinvenire la traccia di quello spirito che può costruire, lungo esistenze intere, barriere invalicabili. Guardando la propria forma interiore è difficile comprendere dove risieda il vero io e dove invece ci si conformi a uno stampo premuto dal contesto in cui ci muoviamo, e l’odore casalingo dell’humus che ci ha nutriti è un aroma che, se non riconosciuto e compreso come una soltanto delle fragranze che compongono il bouquet del mondo, vizia una riflessione che apra alla scoperta e alla comprensione dell’altro; una pigrizia terrorizzata al pensiero di uscire dal proprio guscio, luogo sicuro, privo di stimoli, protettivo, noto e confortevole. Ma solo con questa apertura è possibile riconoscersi tutt’uno con l’altro, parte del tutto, e non solo conoscere ma cominciare ad essere.
Al di là delle differenze culturali esistono dei centri comuni nell’essere umano la cui ricerca e comprensione tracciano la stretta strada verso una saggezza che non si fa confinare nella prospettiva di una torre che guardi dall’alto tutto ciò che la circonda, ma si espande come un fiume che arricchisce e si arricchisce nella compenetrazione di tutti gli elementi circostanti.

Questa consapevolezza ha animato in differenti modi lo spirito dell’Occidente nel contatto con l’ “altro”: dall’epoca in cui i seguaci della mezzaluna e della croce si infilzavano e l’animoso mistico viandante Raimon Lull nel suo El libro del gentile e dei tre Savi faceva dialogare un cristiano, un ebreo e un mussulmano assieme ad un agnostico senza la pretesa di convertirlo; al tempo in cui nelle corti italiane lo sforzo plurilinguista e rinascimentale di Pico della Mirandola tentava di dar vita al sogno di una filosofia universale nascente dal sostrato comune di tutte le religioni.
Nell’epoca della globalizzazione e della comunicazione la nuova difficoltà risiede nella facilità con cui l’opinione comune può ramificarsi in modo fulmineo: informazione massificata che manipola per i propri scopi una superficie che il destinatario si trova servita evitando la fatica di sondarla e approfondirla personalmente tramite il confronto diretto. Allora il cammino verso la conciliazione come comprensione con ciò che da sempre spaventa, il diverso, si fa sempre più accidentata e piena di voci che si fanno seguire senza guidare.

Tra i costanti venti di guerra ideologizzati per meglio nasconderne i personali fini economici, uno dei centri comuni all’uomo resta la pace, una parola vuota che si riempie quando viene considerata come pace interiore che si esteriorizza; unificazione come scomparsa del confine tra la dimensione interna e quella esterna, filo conduttore della ricerca di un cristiano-induista-buddhista come Raimon Panikkar.
Nella riflessione del filosofo spagnolo il dialogo è sempre centrale come incontro che utilizza la medesima lingua, comprensione del mythos culturale che precede il logos concettuale, uno sforzo che richiede un’apertura completa nei confronti della realtà priva di giudizio e preconcetti.
Ponendosi sullo stesso piano, abolendo la pretesa di essere diversi perché superiori si da vita alla scoperta di ciò che ci anima; di contro il pensiero isolato si auto separa, si astrae dalla rete del tutto, si calcifica nel preconcetto e si allontana dall’altro senza comprenderlo come un altro sé ma come altro da sé.

Così si origina il conflitto senza fine, la volontà di annichilire l’altro con una dannazione che ne pretenderebbe la salvazione; una dinamica tale da lasciare uno strascico nella memoria dell’annichilito che, segnato dal dolore subìto, lo riconoscerà come l’unica realtà possibile, covando nel cuore il desiderio di riapplicarlo su chi per primo ne fece uso.
Le difficoltà nel mutare una forma mentis che caratterizza un’intera sociocultureconomia e quindi anche coloro che la abitano sono come spesse sbarre di ferro che appesantiscono il tappo di una botola, che non può essere aperta dalle ridicole promesse di cambiamento fatte da qualunque forza politica, corrente di benessere o sistema unitario che pretende di rispondere a tutte le domande, ma dal rischioso, doloroso, spaventoso, poderoso sforzo di andare oltre se stessi e abbracciare l’altro.

Se non ho mai parlato con un khmer rosso, con un vietnamita, con un “fondamentalista”…con l’altro, non lo posso conoscere né tanto meno amare. Non posso concepire veramente il “prossimo” se non è prossimo, vicino, conosciuto, qualcuno con cui ho parlato. L’amore non è una ideologia. Gli uomini non sono soltanto idee. Il dialogo – s’intende il dialogo dialogale dove il cuore interviene tanto quanto la mente – è indispensabile.

Raimon Panikkar, La porta stretta della conoscenza : sensi, ragione e fede; a cura di Milena Carrara Pavan, Rizzoli, Milano, 2005, p. 49.
Raimond Panikkar, Pace e interculturalità : una riflessione filosofica; a cura di Milena Carrara Pavan, Jaca Book, Milano, 2002, p. 64.

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