Perché la Chiesa ha paura del gender: una lettura diagonale

La menzogna, la perfetta menzogna, sulle persone da noi conosciute, sui rapporti avuti con loro, sul movente di una certa azione (ben diverso da quello noi addotto), la menzogna su quel che siamo, su quel che amiamo, sui sentimenti che proviamo per l’essere che ci vuole bene […] una tale menzogna è una delle sole cose che ci possano aprire prospettive su qualcosa di nuovo, d’ignoto, che possano risvegliare i nostri sensi assopiti per la contemplazione di universi che altrimenti ci resterebbero sempre sconosciuti (Marcel Proust, La prigioniera)

Più di vent’anni fa Eve Kosofsky Sedwick, una critica letteraria di formazione lacaniana, riconobbe l’importante funzione riflessiva e conoscitiva  della closetedness, cioè la clandestinità implicita, la «performance prodotta dall’atto discorsivo di un silenzio, di un’omissione». La Sedwick aveva formulato la sua teoria riflettendo sulla condizione degli omosessuali, quelli che Leo Bersani chiamerebbe “invisibilmente visibili” perché negati nella loro esistenza pur esistendo.

Eppure, per uno strano paradosso, a oggi la closetedness è la posizione della gerarchia ecclesiastica (dal Papa al fervido credente), che con un regime contraddittorio e costrittivo sul pubblico e privato, sulla conoscenza e l’ignoranza, sulla salute e la malattia, influenza percezioni e approcci e contemporaneamente indaga e costruisce una nuova narrazione del fenomeno gender.

Ma facciamo un passo indietro. Il 21 dicembre 2012, poco prima di Natale, l’allora capo della Chiesa Joseph Ratzinger si espresse in materia di famiglia e gender, con parole grevi e fortemente significative:

[…] l’attentato, al quale oggi ci troviamo esposti, all’autentica forma della famiglia, costituita da padre, madre e figlio, giunge ad una dimensione ancora più profonda. Se finora avevamo visto come causa della crisi della famiglia un fraintendimento dell’essenza della libertà umana, ora diventa chiaro che qui è in gioco la visione dell’essere stesso, di ciò che in realtà significa l’essere uomini. Egli [il Gran Rabbino di Francia, ndr.] cita l’affermazione, diventata famosa, di Simone de Beauvoir: «Donna non si nasce, lo si diventa» («On ne naît pas femme, on le devient») [Simone de Beauvoir, Il secondo sesso, 1949, ndr.]. In queste parole è dato il fondamento di ciò che oggi, sotto il lemma «gender», viene presentato come nuova filosofia della sessualità. Il sesso, secondo tale filosofia, non è più un dato originario della natura che l’uomo deve accettare e riempire personalmente di senso, bensì un ruolo sociale del quale si decide autonomamente, mentre finora era la società a decidervi. […] Dove la libertà del fare diventa libertà di farsi da sé, si giunge necessariamente a negare il Creatore stesso e con ciò, infine, anche l’uomo quale creatura di Dio, quale immagine di Dio viene avvilito nell’essenza del suo essere. Nella lotta per la famiglia è in gioco l’uomo stesso. 

Joseph Ratzinger e Karol Wojtyla

Questo discorso è di straordinario valore per due ragioni: è l’intervento più lucido formulato da un esponente ecclesiastico sul gender, imparagonabile a quelli inconsistenti e grotteschi della maggior parte dei cattolici;  prepara la crociata contro l’«ideologia gender», che non a caso si accenderà di lì a poco.

Il primo dato su cui si dovrebbe riflettere è che nonostante nell’immaginario comune il gender si assimili all’omosessualità (si ripensi alla ridicola locuzione «propaganda gay») come forma più evidente di perversione e devianza, Ratzinger, sulla scia di Gilles Bernheim, non accenna nemmeno all’omosessualità ma colloca il gender nella filosofia politica di stampo femminista, portatrice sana di «rivoluzione antropologica». E a ben guardare, non è il primo a farlo. Come ha sottolineato in un brillante articolo Stefania Giorgi, Wojtyla affrontava con frequenza impressionante e puntuale il tema del ruolo sociale delle donne:

Non c’è stata lettera apostolica, enciclica o esternazione che abbia tralasciato di parlare del ruolo della donna. E’ nelle mani del loro «genio profetico» la salvezza della chiesa e del mondo, ha più volte tuonato Wojtyla. Ma un «genio» irrigidito e irreggimentato, fermo sulla soglia della rappresentazione del divino in terra (il sacerdozio), inchiodato al destino biologico del corpo materno, nel segno del «servizio» nella chiesa, nella famiglia e nel mondo. 

Il riferimento più significativo al «genio della donna» è contenuto nella Lettera alle donne scritta da Wojtyla nel 1995, che disquisisce lungamente sul ruolo sociale, politico, familiare e religioso della donna e – che ve lo dico a fare – lo riporta a quello sacrificale della Madonna:

La Chiesa vede in Maria la massima espressione del «genio femminile» e trova in Lei una fonte di incessante ispirazione. Maria si è definita «serva del Signore» (Lc 1, 38). È per obbedienza alla Parola di Dio che Ella ha accolto la sua vocazione privilegiata, ma tutt’altro che facile, di sposa e di madre della famiglia di Nazaret. Mettendosi a servizio di Dio, Ella si è posta anche a servizio degli uomini: un servizio di amore. Proprio questo servizio le ha permesso di realizzare nella sua vita l’esperienza di un misterioso, ma autentico «regnare». Non a caso è invocata come «Regina del cielo e della terra». La invoca così l’intera comunità dei credenti, l’invocano «Regina» molte nazioni e popoli. Il suo «regnare» è servire! Il suo servire è «regnare»!

La donna è il primo e più importante strumento di conservazione dell’ordine gerarchico stabilito dalla Chiesa, per quel meccanismo del servo-padrone di cui Hegel, ma anche solo per l’evidenza storica che lo status quo persiste finché non si innesca la lotta di classe, ch’è anzitutto una lotta per l’uguaglianza e l’autodeterminazione. Perché l’ordine si conservi, è quindi necessario che la donna si ponga al servizio degli uomini e affondi nell’amore oblativo, che accetti passivamente il ruolo di sacrificio che le è riconosciuto dalla religione cristiana a partire dalla Genesi: obbedire, servire, rinunciare.

[Verrebbe quasi da rispolverare il motto d’apertura di uno dei famosi discorsi del Duce sul Fascismo: «Il P.N.F. è un esercito: in esso si entra soltanto per servire e per obbedire!», scandiva Mussolini nel 1924]

Questo spiega la connessione tra femminismo e gender, nonché l’accanimento della Chiesa contro entrambi: si tratta di posizioni eversive che per loro natura, sostenendo l’autodeterminazione, il razionalismo e la libertà di scelta, sovvertono la cultura su cui la religione e la sua più antica istituzione si fondano e fondano il proprio potere – oserei la propria esistenza. Una società in cui ogni uomo possa scegliere razionalmente e determinarsi a seconda dei propri desideri e delle proprie inclinazioni è una società talmente variegata da risultare infine incontrollabile, ed è una società rigorosamente, orgogliosamente laica, che non lascia spazio a dogmi e a quella ritualità di convenzioni che è l’eteronormatività obbligata. È una società in cui non è Dio a stabilire cosa sia Uomo e cosa sia Donna, cosa sia Natura e cosa Cultura, vale a dire una società senza Dio che non ha alcun bisogno di una struttura come la Chiesa. Per questo va combattuta e soppressa, scongiurata e persino snaturata e violentata, pur di sottacere.

A dirlo chiaramente è il Lexicon Vaticano, ottocento pagine organizzate in ordine alfabetico e scritte da molti cattolici conservatori per illuminare le masse sui “Termini ambigui e discussi su famiglia, vita e questioni etiche“, come recita il sottotitolo. Alla definizione di “genere”, leggiamo (pag. 421, anno 2003):

Ci si trova infatti in presenza di una nuova rivoluzione culturale. Quale che sia il suo sesso, l’uomo potrebbe scegliere il suo genere: potrebbe optare per l’eterosessualità, l’omosessualità, il lesbismo. Potrebbe persino optare per la transessualità, cambiare di sesso. Esistono progetti di dichiarazione dei diritti del «genere» […] Per giungere alla diffusione universale di tali idee, i promotori del femminismo radicale di genere intendono realizzare un cambiamento culturale graduale, la cosiddetta «de-costruzione» della società, iniziando dalla famiglia e dall’educazione dei figli.

Al di là della confusionegravissima – tra orientamento sessuale e genere, è da sottolineare in tutti i documenti cattolici finora esaminati la ricorsività del termine «rivoluzione», che sottende la paura delle pratiche di liberalizzazione e di una perdita simbolica e materiale di privilegi e di identità, e la ricorsività del riferimento al femminismo, stavolta radicale. Senza troppo sforzo si intuisce che il femminismo radicale è quello di Judith Butler, data la presenza di una nota a piè di pagina che rimanda al suo bellissimo saggio del 1990 Gender Trouble  (che tra l’altro spiega bene la differenza tra genere e orientamento, deve essere sfuggito – certo non senza malizia – ai curatori del lemma del Lexicon ). Ma perché fa così paura ai cattolici?

La  risposta è semplice: perché è stato il femminismo radicale a riflettere sulla nozione di genere e a metterne in discussione la natura. A spiegarlo è proprio Judith Butler, in uno sguardo retrospettivo brillante:

In Gender Trouble ho teorizzato la performatività del genere: secondo la mia teoria nessun genere è “espresso” da azioni, da gesti o dal linguaggio, ma è la stessa performance del genere a generare in modo retroattivo l’illusione che vi sia un nucleo interno in ciascuno dei due generi. Questo comporta che la performance del genere produce retroattivamente l’effetto di una qualche essenza o di una qualche disposizione femminile, ad esempio, vera, o almeno persistente, in modo tale da rendere impossibile impiegare un qualche modello analitico stabile per la comprensione del genere. Sempre in quel testo sostengo inoltre che il genere è la conseguenza di una ripetizione ritualizzata di convenzioni, e che tale ripetizione è socialmente imposta: questa imposizione, a sua volta, deriva in buona parte dalla forza di una eterosessualità obbligatoria (The Psychic Life of Power, 1997; La vita psichica del potere, 2005).

Il genere è una performance, non un fatto o un attributo, tanto meno un’inclinazione naturale: è la simulazione di un’idea reiterata fino a divenire segno distintivo. Questa è la tesi di Judith Butler, e non potrebbe essere più spaventosa e pericolosa, nel contesto cattolico delle nostre famiglie tradizionali, perfette, timorate di Dio, in cui il genere è il complesso di norme che ci viene imposto a partire dalla nascita («Donne si nasce», direbbero i cattolici), volto a modificare la nostra percezione del mondo e la percezione di noi stessi rispetto al mondo, ma soprattutto diversificato a seconda del nostro sesso biologico. No, non c’è niente di più eversivo. Niente di più rivoluzionario.

Negli appartamenti in cui sfoggiamo le foto della nostra famiglia credente e legalmente felice, il genere è la piccola e profonda ingiustizia per cui viene permesso ai nostri fratelli di sedere disordinatamente a gambe aperte, mentre noi siamo invitate con insistenza a esibire aggraziata compostezza. È l’aut-aut tra la danza e la ginnastica artistica e insieme il tacito divieto ai nostri fratelli di iscriversi a danza o a ginnastica artistica. È il ricatto di non essere uomini e di non essere donne nonostante il sesso biologico, o peggio di non esserlo “abbastanza”, che già vuol dire affatto.

Dentro di noi, nel nostro corpo, nello spazio personale che occupiamo sullo spazio pubblico, è quest’archetipo – cattolico e sessista – a instillarci il bisogno di essere riconosciuti in una società che non accetta se non ciò in cui riconosce se stessa, a imporci la necessità di essere riconosciuti per poter esistere socialmente.  E non è forse un esercizio di potere violento e subdolo, innescare in noi l’urgenza di approvazione, l’obbligo di rispondenza, e controllare che venga rispettata l’eteronormatività, emarginare chiunque non la rispetti? 

«Puniamo regolarmente chi manca al proprio dovere di genere», denunciava  già 25 anni fa Judith Butler. Le madri che non vogliono avere figli, le lesbiche, i gay, le proabortiste, le femministe. Perché ognuna di queste figure, a proprio modo, trasgredisce la norma imposta, fa un uso del corpo e del genere che si sottrae al modello prestabilito, creando in questo modo uno spazio di libertà e di eversione pericolosi. L’oppressione e la mistificazione operata dalla Chiesa Cattolica per millenni a danno di donne e omosessuali risponde alla sola volontà di mantenere l’ordine costituito, un ordine che, se fosse naturale, certamente non avrebbe bisogno di essere difeso tanto spesso e tanto strenuamente, ma che proprio perché non lo è deve reprimere in un bagno di sangue qualunque guizzo di libertà, qualunque voce fuori dal coro,  a partire dalle donne che rifiutano di esserlo stricto sensu. E beh, se questa non è ideologia gender non saprei davvero come chiamarla, né saprei come definire questa lotta se non «battaglia tra liberismo e liberalismo».

Alla luce degli ultimi eventi che hanno visto coinvolti 49 bellissimi libri e un sindaco censore, e sperando offra uno spunto di riflessione a ognuno di voi, vogliamo concludere con lo stralcio di una fiaba che esemplifica in maniera eccelsa la dinamica finora illustrata, in tutta la sua complessa banalità.  La fiaba è stata scritta dal più grande scrittore di fiabe della storia, che – glielo si perdoni – era notoriamente omosessuale.

I ciambellani che erano incaricati di reggergli lo strascico finsero di raccoglierlo per terra, e poi si mossero tastando l’aria: mica potevano far capire che non vedevano niente.
Così l’imperatore marciò alla testa del corteo, sotto il grande baldacchino, e la gente per la strada e alle finestre non faceva che dire: “Dio mio, quanto sono belli gli abiti nuovi dell’imperatore! Gli stanno proprio bene!” 
Nessuno voleva confessare di non vedere niente, per paura di passare per uno stupido, o un incompetente. Tra i tanti abiti dell’imperatore, nessuno aveva riscosso tanto successo.
Ma l’imperatore non ha nulla addosso!“, disse a un certo punto un bambino. 
“Santo cielo”, disse il padre, “Questa è la voce dell’innocenza!”. Così tutti si misero a sussurrare quello che aveva detto il bambino.
“Non ha nulla indosso! C’è un bambino che dice che non ha nulla indosso!”
“Non ha proprio nulla indosso!”, si misero tutti a urlare alla fine. E l’imperatore rabbrividì, perché sapeva che avevano ragione; ma intanto pensava: “Ormai devo condurre questa parata fino alla fine!”, e così si drizzò ancora più fiero, mentre i ciambellani lo seguivano reggendo una coda che non c’era per niente. (Hans Christian Andersen, I vestiti nuovi dell’Imperatore, 1837)

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