L’occhio moderno di Hopper

Gli Stati Uniti visti da Hopper, quelli colti nella trasformazione operata dal boom, quelli degli uffici e delle segretarie, dei motel e delle pompe di benzina, delle stazioni balneari e dei diners − è stata la moglie Jo, manager e critica, ma anche pittrice lei stessa oltre che la modella privilegiata del marito, a suggerire il titolo di Nighthawks (Nottambuli, dicono le didascalie italiane) a quello che è poi diventato il più celebre dipinto di Hopper −, quelli dell’industrializzazione, insomma, non ci farebbero mai immaginare gli inizi della sua carriera artistica. Bene, Hopper (1882-1967) nasce come impressionista. Non solo, è riuscito a rinnovare la pittura paesaggistica americana facendo qualcosa che assomiglia un sacco a Instagram.

Tutto il suo percorso d’arte sembra procedere con un obiettivo preciso, quello di «far coincidere lo sguardo con il quadro» (Rolf G. Renner). Ecco perché i primi tentativi, che avvengono appunto sulla scia dell’Impressionismo (per esempio le vedute cittadine, con particolare attenzione ai ponti, ai moli e gli attracchi e in genere le scene che comprendono acqua e architettura), già presentano la caratteristica forte che contraddistingue le opere di Hopper: l’idea della porzione. A differenza di come stanno lavorando i paesaggisti americani di quegli anni, come Frederick Edwin Church e Thomas Cole, infatti, Hopper ritaglia e delimita. Sicuramente, anche soprattutto nel punto prospettico  che di volta in volta sceglie di adottare, c’è di mezzo anche lo zampino delle nuove tecnologie − e gli Impressionisti per primi furono fortemente influenzati dalla fotografia.

Il mio obiettivo nella pittura è sempre di usare la natura come mezzo per provare a fissare sulla tela le mie reazioni più intime all’oggetto, così come esso appare nel momento in cui lo amo di più; […] perché io poi scelga determinati oggetti piuttosto che altri, non lo so neanche io con precisione, ma credo che sia perché rappresentano il miglior mezzo per arrivare a una sintesi della mia esperienza interiore. (Ed Hopper, lettera a Charles H. Sawyer, direttore della Addison Gallery of American Art, 1939)

In quello che Renner considera la chiusura del suo “periodo francese”, Blackhead, Monhegan (1916-19), la tecnica è ancora marcatamente impressionista, ma i contrasti tra i colori cominciano a farsi più decisi, si compenetrano con meno delicatezza. Le zone buie diventano più importanti come spazio occupato sulla tela e rilevanza nell’intento del dipinto: comincerà a essere questa una costante dei suoi quadri americani, come in Cobb’s Barns, South Truro (1930-33) −  a quanto pare se lo gode molto Obama − o  New York, New Haven and Hartford (1931). Comincia a diventare evidente l’adozione di una prospettiva ribassata o rialzata, con un punto di vista quindi praticamente mai allineato con l’oggetto, ma sempre come di sfuggita, di passaggio. Le case immerse nei paesaggi naturali indicano l’avanzare della civiltà − e allo stesso tempo non sono altro che blocchi come rimasti lì dopo essere stati appoggiati da qualcuno. Sembrano sempre essere porzioni e frammenti di un contesto molto più grande, di cui non sappiamo nulla.

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Railroad Crossing, 1922-23

La geometria della costruzione comincia a diventare prepotente, combinandosi sempre alla sensazione che ogni quadro sia uno scatto fatto mentre ci si trova per strada, assolutamente casuale, come a dire «Stavo passando di qui e mi è piaciuto molto quello che ho visto», come questo Railroad Sunset (1929) − quanto è da Instagram, Hopper, con questo? Molto. Anche nelle sue opere più cittadine (che potremmo trovare cercando #urbanlife, tipo), però, la civiltà sembra sempre aver fatto un passo indietro ed essere assente nella sua componente di vitalità, come in Sunday (1926) o Drug Store (’27); molto diversa da quella che solo trent’anni prima, per tornare alla formazione impressionista, Pissarro così dipingeva, sottolineando il brulicare ininterrotto nella nuova dimensione della metropoli. Le prove americane di Hopper, soprattutto queste prime di cui parliamo, piuttosto «si concentrano sui segni stessi», tornano ad avere una «superficie pulita» (ancora Renner) in cui è la direzione dello sguardo che forse fa più del soggetto − o meglio: è il modo in cui si guarda l’oggetto a renderlo soggetto di un quadro.

In questo contesto non c’è una distanza troppo fredda. L’oggetto è stato visto. Il tempo era fermo. E noi viviamo ancora una volta l’eccitazione ora elaborata spiritualmente nella comparazione artistica. (Ed Hopper, Charles Burchfield: American, 1928)

L’impressione di vuoto che ci danno i quadri di Hopper è questo: sospensione. Qualcosa di veloce come uno scatto, che in mezzo al niente sceglie qualcosa e lo fa rimanere. E non racconta niente, a meno che non ci si metta a leggerlo. E non è detto che sveli niente − ma palesa, quello di certo.

Un ultimo esempio: Lighthouse Hill (1927). Di nuovo, una veduta parziale, senza elementi che rendano pienamente riconoscibile il faro o la collocazione geografica. Le linee sono nette e la divisione tra spazio in luce e ombre è ben definita, la costruzione si staglia perfetta e decisa contro il cielo quasi piatto. Avviene qualcosa di diverso, tuttavia, da Cobb’s Barns, South Truro, dove l’elemento umano, tramite i colori, diventava quasi assimilabile a quello naturale. In comune, però, hanno lo svuotamento: Cobb’s Barns testimonia la crisi agricola degli Anni Venti, con l’esodo dalle campagne verso i centri urbani. Anche la scena di Lighthouse Hill appare come svuotata, con qualcosa che va tenuto a distanza − anche per la prospettiva ribassata. C’è un faro, ma dov’è il mare? Nel ritaglio che Hopper decide di offrirci, quello che vediamo è come uno spazio inutilizzato.

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Lighthouse Hill, 1927

Renner, per tutti questi motivi, allontana quest’opera dal filone realista per avvicinarla invece a quella dei metafisici, proponendo in particolare un confronto con La nostalgia dell’infinito (1913-14) di De Chirico.

Non sappiamo niente di questi posti, se non che Hopper li ha visti − e ora li vediamo noi.

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