ritratto-della-giovane-in-fiamme-recensione

Pop Corno: Ritratto della Giovane in Fiamme


Il 28 dicembre 2020 il cinema ha compiuto 125 anni: in quello stesso giorno del 1895, infatti, venivano proiettati pubblicamente i 46 secondi di quello che è considerato il primo film della storia, creato dai fratelli Lumiére. Io invece, di anni ne sto per compiere trenta e ho visto pochissimi film: Pop Corno è il mio pubblico tentativo di fare ammenda.


Il film di febbraio non poteva che essere dedicato all’amore e, nonostante io mi sia persa gran parte delle commedione romantiche degli ultimi (leggi: tutti) anni, ho pensato di fare qualcosa di diverso. E non è vedere un film che mi era stato consigliato da tempo e che non avevo ancora guardato, anche se potrebbe sembrare.

Ritratto della giovane in fiamme (Portrait de la jeune fille en feu, 2019) è un film francese dedicato alla nascita, allo svolgimento e alla (probabile?) conclusione della storia d’amore tra due donne. Ma è molto, molto di più.

Pensavo di non conoscere Céline Sciamma, la direttrice e sceneggiatrice del Ritratto, ma in realtà l’avevo già incontrata: ha curato la sceneggiatura de Les Revenants, una serie del 2012 che considero a oggi una delle migliori a oggi, ed è stata regista e sceneggiatrice di Tomboy (2011), un altro di quei film che dimora nella mia lista da anni (ma per questo c’è Pop Corno).
Con il Ritratto ci porta in un’isola della Bretagna dove la pittrice Marianne è stata convocata. A riceverla, c’è Valeria Golino che parla francese ed è una nobildonna la cui prima figlia si è suicidata e la seconda è stata recuperata dal convento in cui l’avevano spedita, in modo da farle sposare il nobiluomo di Milano a cui era promessa la sorella. Ci siamo? Ok.

Marianne è una giovane figlia d’arte, pittrice come il padre, che non è stata convocata per la sua bravura, ma perché in quanto donna sarà un’artista discreta e non desterà sospetti. La secondogenita infatti, avvisa la madre, rifiuta di essere ritratta e ha portato un pittore alla disperazione: ma immortalare la sua bellezza su tela è indispensabile, perché bisogna inviare il dipinto al più presto a Milano per mostrarlo al giovane pretendente.

Héloïse, la giovane da ritrarre, da subito si mostra forte: nel carattere, nelle parole e nelle espressioni. Tutt’altro che la docile e solitaria fanciulla destinata a diventare monaca, tutt’altro che la promessa sposa timida e sottomessa: Héloïse domanda, scruta e confronta, proprio come fa Marianne nei panni dell’accompagnatrice che, durante le passeggiate giornaliere, cerca di assorbire quanti più dettagli possibili per poi dipingerla a memoria quando cala il sole, sapendo di avere poco più di una settimana di tempo per ultimare l’opera.

Improvvisamente il dipinto è finito: ma siamo solo a un terzo del film. Nei miei appunti si può leggere:
«cosa succede ora?
ora Héloïse è pronta a posare».
Perché Marianne ha presentato la tela prima a lei che alla madre (e commissionatrice), ma Héloïse è quasi delusa: il ritratto non le assomiglia per niente. È essenziale idealizzare, spiega Marianne (non siamo troppo lontani dagli anni del Neoclassicismo, in fondo), soprattutto dato che si tratta di un dipinto che deve convincere il futuro sposo. Ma dopo il confronto con Héloïse, Marianne è d’accordo: fissa la tela e non vede la giovane, ma l’idea che la madre ha chiesto di comunicare di lei. Ne cancella il volto e chiede di poter riprovare. Fortunatamente Valeria Golino concede altri cinque giorni: mentre lei sarà lontana dalla casa Marianne potrà continuare a ritrarre sua figlia, questa volta apertamente dato che anche Héloïse è d’accordo.

Per quest’ultima, però, è una quasi una sfida: ora vuole che Marianne catturi la sua vera natura, la sua vera essenza, qualcosa che non fugge e muta ma rimane. E se mi ero appuntata, nel primo terzo del film, che «è una caccia ai particolari, è come un corteggiamento», ora questo si fa palese: gli sguardi sono sostenuti, le mani toccate, i discorsi intessuti più strettamente. La passione è così forte che, quando di notte si recano a un falò dove le donne della zona intonano un canto che suona molto come «non posso fuggire», la gonna di Héloïse a un certo punto prende fuoco ma sta guardando Marianne così intensamente che non se ne rende conto.

L’amore tra le due è tenero e sensuale, si esprime in ogni sfumatura anche perché non ha aspettative: non contraddice e non prova a sabotare l’ordine sociale e culturale, ma vi si inserisce in una bolla di libertà e di presenza reciproca.

Il mito che torna e ritorna è quello di Orfeo ed Euridice, che dapprima Héloïse legge ad alta voce da un libro e che ci viene riproposto nella scena dell’ultimo saluto tra le due donne, quando Marianne sta per uscire definitivamente dalla porta della casa in cui ha vissuto e amato nelle ultime settimane e Héloïse le urla di voltarsi e lì appare, vestita di bianco come una sposa – e Marianne la può guardare un’ultima volta prima di chiudere la porta. E, ancora e dopo molti anni, nel dipinto che Marianne ha fatto e che ha spacciato per un’opera di suo padre per essere ammessa a una mostra, dove Orfeo guarda negli occhi Euridice mentre la separazione avviene, momento iconografico che raramente viene scelto, le fa notare un anziano e incipriato intenditore. A questa esposizione, Marianne apprende che è presente un dipinto con Héloïse come soggetto: si muove tra la folla per individuarlo e quando finalmente lo ha davanti la può vedere un’altra volta. Héloïse è madre: c’è una bambina bionda con lei, ma non è questo a catturare davvero l’attenzione dell’amante e amata. È il libro che lei ha in mano: si legge il numero 28 sulla pagina che tiene un poco aperta con il dito. A pagina 28 del libro di Héloïse, infatti, Marianne aveva fatto un autoritratto a pastello, per lasciarle un ricordo di sé nell’ultimo giorno trascorso assieme. Si commuove per questo messaggio che Héloïse ha mandato nel mondo, senza sapere se un giorno Marianne sarebbe riuscita a vederlo.

In realtà, ci viene rivelato, Marianne riesce a vedere un’ultima volta Héloïse: siamo a teatro, non sappiamo se l’abbia rintracciata e sia andata a quella rappresentazione volontariamente o sia stato un wishful thinking come quello che Héloïse aveva avuto con il ritratto con il libro, ma si siede dirimpetto a lei. Héloïse non sa che Marianne è presente. Proprio come nei primi momenti trascorsi assieme, la può osservare senza che questa sappia di essere scrutata da occhi che la vogliono conoscere e catturare – e noi siamo con Marianne, con un primo piano fisso sul profilo di Héloïse che muta man mano che prosegue l’esecuzione dell’Estate di Vivaldi: si tratta della stessa melodia che Marianne aveva improvvisato su uno strumento a tasti tanti anni prima e che aveva strappato il suo primo sorriso. Mentre la musica continua, Héloïse si corruccia, piange, sorride, ricorda. E noi, con Marianne, la osserviamo ancora una volta.

Il ritratto della giovane in fiamme a cui si riferisce il titolo è un dipinto fatto da Marianne che compare all’inizio del film e che fa riferimento alla sera del falò e degli sguardi che non si potranno dimenticare.

La mano che durante il film dipinge, invece, è quella dell’artista Hélène Delmaire, famosa per i suoi ritratti dal viso cancellato: è il gesto che compie Marianne quando Héloïse è insoddisfatta del primo ritratto e che indigna invece la madre.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.