Anthropocene – La mostra che documenta gli impatti dell’epoca umana

C’è chi lo difende a spada tratta, chi ne abusa, chi è del tutto contrario. Il termine Antropocene è così, discusso e controverso poiché sottintende un concetto vasto ancora fortemente dibattuto. Coniato intorno alla metà degli anni Ottanta e successivamente utilizzato e diffuso dagli anni 2000 dal premio Nobel per la chimica Paul J. Crutzen e dal biologo Eugene Stoermer, l’Antropocene starebbe ad indicare una nuova era geologica, quella dell’umanità, ormai divenuta una potente forza in grado di modificare la Terra al pari di agenti geomorfologici quali acqua, vento ed eruzioni vulcaniche. Come affermava il geologo italiano Antonio Stoppani già nell’Ottocento, l’impatto dell’uomo sulla Terra può essere paragonato ad un nuovo elemento, cioè ad una nuova forza tellurica in grado di modificare gli assetti e gli equilibri del nostro pianeta. Tuttavia, come precedentemente accennato, non mancano coloro che contestano l’utilizzo indiscriminato di tale termine in quanto metterebbe sullo stesso piano tutta l’umanità, andando a eliminare o meglio a nascondere nomi, responsabilità, rapporti di forza e relazioni di potere economico e sociale che sono in realtà alla base della complessa crisi socio-ambientale attuale: “La devastazione del pianeta non è frutto dell’azione umana, è frutto piuttosto delle relazioni di estrazione e sfruttamento che sono al cuore dell’intreccio storico tra colonialismo e capitalismo” afferma la ricercatrice Miriam Tola della Northeastern University di Boston in un’intervista condotta da Antonella Di Biase su VICE. Per questo motivo sarebbe meglio parlare di Capitalocene come afferma Jason Moore, storico dell’ambiente e professore di sociologia all’Università di Binghamton, autore di Antropocene o Capitalocene – scenari di ecologia-mondo nella crisi planetaria.

A distanza di qualche decennio, tuttavia, la potenza evocativa del termine e la sua popolarità sono più forti che mai. Sebbene si tratti di un concetto estremamente problematico, l’Antropocene è entrato a far parte della nostra quotidianità, è diventato virale. Non è un caso, dunque, che Anthropocene sia stato scelto come titolo dell’esplorazione multimediale in scena al MAST – Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia di Bologna fino al prossimo gennaio. In anteprima europea, infatti, le straordinarie immagini dei tre fotografi e registi canadesi Edward Burtynsky, Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier realizzano un percorso interattivo intenso e drammatico alla scoperta dell’impronta umana sul pianeta Terra. Arte, cinema e realtà aumentata sono gli elementi essenziali di una mostra-viaggio che ci porta a fare i conti con ciò che potremmo perdere per sempre. Si inizia dal Canada, terra natía dei tre artisti, simbolo di meravigliosi e vasti ecosistemi ancora incontaminati ma sempre più fragili. La foresta secolare di Cathedral Grove, con abeti di più di 800 anni e 75 metri di altezza, ne è un esempio. Ogni anno meta di centinaia di turisti provenienti da tutto il mondo, Cathedral Grove è un santuario naturalistico protetto e insostituibile. Tuttavia, come accade in molte altre regioni del mondo, anche le foreste della Columbia Britannica sono oggetto di deforestazione. E il collegamento con l’Amazzonia in fiamme per far posto a pascoli e monocolture o con la foresta tropicale del Borneo distrutta per far spazio alle piantagioni di palma da olio è presto fatto. Le immagini di Burtynsky mostrano ciò che lui descrive come “meravigliosi ecosistemi in pericolo, una bellezza e biodiversità che rischiamo di perdere per sempre”. Per osservare gli impatti dell’Antropocene, tuttavia, non occorre andare oltreoceano. In Europa, ad esempio, fotografie e riprese aeree mostrano gli scempi delle centinaia di serre nel comune spagnolo di El Ejido, un “Mare di plastica” che alimenta con frutta e verdura i mercati delle maggiori città europee sfruttando la manodopera dei migranti e inquinando suolo e falde acquifere. Da provincia più povera Almeria è oggi una tra le più ricche di Spagna. La vera domanda da porsi, però, è: “a quale prezzo?”.

Dal consumo di suolo a causa di un’agricoltura intensiva e insostenibile a quello dovuto alla rapida urbanizzazione, il passo è davvero breve. Le immagini che raffigurano la giungla urbana di Los Angeles sono impressionanti, specie perché potrebbero essere state scattate “pressoché ovunque in Nord America” a dimostrazione dei processi di cementificazione e urban sprawl – urbanizzazione incontrollata tipici di un mondo in cui la “terra è diventata il campo di battaglia dei grandi interessi economici: viene conquistata, sfruttata e commercializzata”. La natura incontaminata non esiste più, i rifiuti sono ovunque, le discariche a cielo aperto – come quella di Dandora, Kenya, una delle più grandi al mondo – un’icona della nostra economia lineare che prende, trasforma, utilizza, scarta, inquina e distrugge. “È il paesaggio più tormentato che io abbia mai fotografato” afferma Burtynsky a proposito del Delta del Niger, territorio devastato da decenni di estrazioni petrolifere ad opera delle grandi compagnie quali ENI, Shell e BP la quale, nel 2014, “stimava che il mondo potesse ancora beneficiare di 53 anni di disponibilità del petrolio, considerando l’indice di consumo di quel momento”. Pur essendo non rinnovabili e in esaurimento, le fonti fossili sono ancora oggi la principale fonte di energia per la quasi totalità della popolazione mondiale. Il petrolio e i suoi derivati sono assolutamente centrali in ogni aspetto della nostra vita, ne siamo totalmente dipendenti e la transizione verso energie pulite, sebbene sempre più incentivata, è ancora lenta e piena di ostacoli. E così le temperature aumentano, gli oceani si riscaldano, le barriere coralline dell’Indonesia e dell’Australia lentamente muoiono, i pesci scompaiono e la sicurezza alimentare di milioni di persone messa a rischio. Viaggiando nell’Antropocene non possiamo fare a meno di constatare ciò che troppo spesso tendiamo a non vedere, cioè che nel sistema Terra tutto è interconnesso e noi ne siamo una parte sempre più consistente.
I colori accesi, i filmati ipnotici e le sapienti inquadrature fanno di Anthropocene una mostra assolutamente da non perdere per osservare con i propri occhi gli impatti profondi e indelebili delle nostre azioni. Pur considerando come sia sufficiente guardare fuori dalla propria finestra per rendersi conto di cos’è l’Antropocene e di come si manifesta, le immagini si rivelano ancora una volta un importante strumento per comunicare gli elementi essenziali di questa supposta nuova era geologica. Crescita incontrollata, profitto, estrattivismo, disuguaglianze, ingiustizie, inquinamento. Ciò che Anthropocene fa è mostrare i limiti di un sistema capitalistico visibilmente non sostenibile che si nutre delle disuguaglianze oggi più che mai sotto gli occhi di tutti spingendoci a chiederci quale mondo vogliamo per noi e per chi verrà dopo. Una sorta di esame di coscienza che scaturisce dal guardare senza filtri un presente radicalmente trasformato da secoli di crescita illimitata resa possibile dallo sfruttamento di quelle stesse fonti fossili che oggi sono causa del nostro lento avvelenamento. L’unico augurio possibile è che la visione di Anthropocene possa favore una presa di coscienza della necessità di un cambio di paradigma a livello globale non solo economico ma anche culturale.

Al termine della mostra, il 32,61% dei visitatori si dichiara preoccupato. Tuttavia, solo il 12.58% dice di essere motivato, che può essere interpretato come motivazione a modificare il proprio stile di vita e/o a fare pressione affinché le grandi compagnie o i decisori politici investano in un altro modello di sviluppo. Si tratta di un dato da non sottovalutare che impone una riflessione collettiva sulle attuali modalità di comunicazione della crisi socio-ambientale in cui siamo immersi.

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