«Niente ci accomuna come l’essere figli» – Intervista a Paolo Di Paolo

Il nuovo romanzo di Paolo Di Paolo, Lontano dagli occhi, edito da Feltrinelli (2019), è una storia densa, intima, e anche breve. Sullo sfondo una Roma anni Ottanta in cui si cammina – attraverso gli occhi del narratore – e si inciampa nella situazione politica, nelle manifestazioni, nella sparizione di Emanuela Orlandi, nell’orgoglio dei tifosi romani per la vittoria dello scudetto, ma soprattutto ci si imbatte in tre donne e in tre uomini che forse si sfiorano senza saperlo. Da un lato ci sono Luciana, Valentina e Cecilia; dall’altra l’Irlandese, Ermes, Gaetano e anche Ettore che prepotentemente vuole farsi strada in questa storia. Le tre donne hanno in comune l’avere scoperto di essere incinta e gli uomini di questa storia fanno i conti con la loro paternità, ma tutti e sei (o forse dovremmo dire sette) mettono anche in considerazione l’idea di essere, prima di tutto, figli. La frase della quarta di copertina è veritiera e tagliente: «Niente ci accomuna come l’essere figli».
Luciana lavora in un giornale che sta per fallire, l’uomo che ama (che lei chiama Irlandese per via dei capelli rossi) se n’è andato mentre Ettore, il suo ex, ritorna in continuazione. Valentina è la più giovane delle protagoniste, ha diciassette anni, va alle superiori e non parla più con Ermes, almeno non dopo di aver scoperto di essere incinta di lui. Cecilia, invece, (che è stata la mia protagonista preferita), vive sulla strada con un cane, l’unico essere che ama davvero. Appena scopre di essere incinta torna da Gaetano, che lavora in una tavola calda, e si presenta lì, davanti al posto di lavoro di lui, con il pancione. Si rimane incollati alle pagine, si vuole scoprire cosa succederà, e si vorrebbero fare tantissime domande ai protagonisti, a volte li si vorrebbe consigliare, abbracciare. Purtroppo le domande ai personaggi le possiamo fare soltanto nella nostra testa (e magari immaginare le risposte), ma per fortuna Paolo Di Paolo ha accettato di rispondere a qualche mia curiosità. Grazie mille!

Buongiorno, Paolo! Dopo aver finito il suo romanzo ho riflettuto molto sul titolo Lontano dagli occhi che mi ha ovviamente ricordato il noto proverbio “Lontano dagli occhi, lontano dal cuore”.  Come mai ha deciso di intitolarlo così?
Credo proprio per rovesciare o mettere in discussione il proverbio (e la canzone). Chi l’ha detto che una distanza fisica corrisponda a una distanza emotiva? E d’altra parte, ciò di cui scriviamo è sempre lontano dal nostro sguardo. La realtà di cui parlo non è davanti a me, è altrove. Eppure riesco a evocarla, a convocarla con l’immaginazione, con la memoria, con le parole.

“Lontano dagli occhi, lontano dal cuore”. Può essere davvero così tra le donne (Luciana, Valentina, Cecilia) e gli uomini (l’Irlandese, Ermes, Gaetano) del suo romanzo? Ma, soprattutto, tra le protagoniste e i figli che hanno in grembo? E tra i padri e l’idea di avere un figlio?
Sì, è vero, è una storia di persone che si allontanano fra loro. Una storia di silenzi, anche, e di solitudini improvvise. Le tre protagoniste non accettano facilmente la loro gravidanza, per ragioni diverse. E così gli uomini fanno fatica a fare i conti con questa trasformazione che non ha evidenze fisiche… Ma ancora una volta possiamo dire che ciò che (o chi) è lontano dagli occhi non è poi così lontano dai sentimenti. Sia quelli positivi, sia quelli più negativi.

Da dove le è venuta l’idea di narrare questa storia?
Forse da quella frase che poi abbiamo scelto di mettere sulla quarta di copertina: niente ci accomuna come l’essere figli. Volevo confrontarmi con questo dato ovvio e allo stesso tempo incandescente.

Il suo è un romanzo che parla di cambiamenti: non soltanto di vita, ma anche corporei per quanto riguarda Luciana, Valentina e Cecilia. Quanto la genitorialità può cambiare una persona?
Resti figlio, ma vivi questo essere figlio in modo diverso. Cambia parecchio, naturalmente, in termini di responsabilità. Ma anche di percezione di sé, di rapporto con le ambizioni, con i fallimenti, di bilanci sul fronte del voler diventare e dell’essere, nei fatti, diventati.

Paolo Di Paolo

Scrive «Non è facile essere i genitori che i figli vorrebbero. Non è facile nemmeno il contrario». È una frase dolorosa e veritiera, soprattutto per i rapporti e i non-rapporti che le tre protagoniste hanno con i loro genitori. Oltre che per questioni caratteriali, è possibile che sia colpa anche di un conflitto generazionale?
Il conflitto generazionale c’è sempre. C’era anche quando non esplodeva, anche quando restava sottotraccia. Ed è una questione pubblica e privata allo stesso tempo. Puoi viverlo su una piazza, condividendolo, o in una stanza di casa tua. Questo non toglie che si possa avere o avere avuto un ottimo rapporto con i propri genitori. Il punto è che uno scarto, una differenza va sentita – ed è necessaria per costruire la propria identità.

Alla fine del romanzo si mette “a nudo”, parlando anche di sé. Io sono convinta che la vita influenzi la scrittura e viceversa, e anche che la scrittura, in un modo imprecisato, aiuti a svuotarsi. Lei cosa ne pensa?
Sicuramente è così. Le ultime pagine sono anche un atto di fede nella scrittura, nella possibilità che offre di esplorare la realtà, di tentare di capirla, di percepirla più intensamente. Talvolta anche di “costruirla”.

Grazie mille!

Photocredit: © Feltrinelli

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