Midsommar: l’evoluzione del cinema horror

“Qui non commettiamo omicidi, siamo gente molto religiosa”
Lord Summerisle, The Wicker Man

Quando, sul finale di Hereditary, Peter Graham si sveglia nel cuore della notte, avverte una strana sensazione. Quando esce dalla sua stanza per andare a controllare, nemmeno si accorge che sua madre lo sta seguendo camminando sul soffitto. Se non sta attento, anche lo spettatore rischia di non notare Annie Graham sospesa a mezz’aria: la sua camicia da notte non è altro che una chiazza bianca, una porzione più chiara di oscurità.

Quando tutta la vicenda sarà conclusa, allo spettatore rimane la sensazione che Hereditary (2018), lungometraggio d’esordio di Ari Aster, sia prima di tutto un ottimo film horror, che riesce a coniugare le atmosfere classiche con alcune tematiche innovative. Ma dove Hereditary mantiene quei tratti tipici delle storie dell’orrore, il film successivo, Midsommar (2019), sembra abbandonarli. Se in Hereditary la notte è centrale, su Midsommar non cala quasi mai il sole; se in Hereditary ogni cosa è spaventosa, alla fine di Midsommar può sorgere spontanea una domanda: cosa c’è di bello in un horror che non fa paura?

Photocredit: mymovies

Innanzitutto Midsommar è un film che sceglie di essere complesso, e come tale pretende diverse chiavi di lettura: dal rapporto tra coppia e famiglia a quello tra religione e civiltà, tra totem e tabù. Ma tra tutti questi temi, che rischiano di essere dispersivi, quello più rilevante sembra essere il modo in cui il regista sia riuscito a sfruttare gli stilemi dell’horror per uscire fuori dai confini di genere. Un’operazione che era riuscita in parte anche in Hereditary, quando all’angoscia del sovrannaturale si aggiungeva l’insopportabilità del lutto: la morte della piccola Charlie Graham, figlia della protagonista, improvvisa e cruenta, portava a un dolore tanto umano quanto dilaniante. Sebbene l’incidente stesso fosse stato causato e profetizzato da eventi sovrannaturali, l’orrore che si spalancava sul mondo era semplicemente quello della morte, e l’esistenza stessa diventava assurda senza bisogno di venature demoniache. Ma se in Hereditary il lutto è parte integrante della storia, in Midsommar ne diventa addirittura il motore principale. Il film si apre su una scena di orrore improvviso, un orrore che la protagonista per tutto il film non riuscirà a razionalizzare. La sequenza iniziale è (ancora) perfettamente canonica: è notte, è freddo, è buio, la telecamera sorvola la città con una visuale dall’alto, c’è qualcosa di innominabile nell’aria, un’insensata strage viene commessa e la giovane Dani Ardor ne viene traumatizzata. Fin qui, tutto bene – verrebbe da dire: accade tutto ciò che deve accadere in un film horror. Tutto il prologo, come una maledizione, sembra lasciar intendere che di lì a poco succederà qualcos’altro di terribile. Questo è solo un assaggio, sembra dirci il film, preparatevi a ciò che succederà dopo.

E invece dopo non succede niente. La vicenda prende un’altra direzione; il film cambia location e stagione, trasferendosi in Svezia durante l’estate. Quella che sembrava essere un’anticipazione, si esaurisce lì. Allora qual è il significato di questo lutto – di questa strage improvvisa? A questa domanda, che si pongono contemporaneamente lo spettatore e la protagonista, si può rispondere in un unico modo: il lutto è semplicemente il lutto, non ha nessun significato, è fine a sé stesso. A differenza del solito horror, l’orrore iniziale non anticipa nessun evento successivo, lasciando semmai soltanto un fertile terreno psicologico che sarà utile per l’evoluzione del personaggio. Il regista utilizza dunque questo topos degli horror – cioè la strage iniziale che richiede spiegazioni o invoca vendetta – per attrarre lo spettatore all’interno dell’orrore rappresentato dall’esistenza stessa. Anche le scene iniziali vanno in questa direzione: la camera spesso è fissa, abbraccia tutta la scena; gli attori rimangono alla stessa altezza, seduti o in piedi, dando allo spettatore l’impressione di essere tra loro. Tutto avviene “sulla scena”, ma l’effetto-palco è evitato grazie all’uso frequente di specchi appesi alle pareti, che consentono all’attore di dare le spalle alla telecamera senza nascondere l’espressività del viso.

Alla fine, in Midsommar il sovrannaturale risulta del tutto assente. La volontà delle “forze del male” (o, narrativamente, gli antagonisti) è identica a quella dei protagonisti: fuggire la morte, allontanare l’assurdo dalla vita. Anche con l’arrivo in Svezia, Aster richiama un altro topos degli horror, quello dell’incontro tra la civiltà occidentale, cristiana e moderna, e una comunità chiusa, pagana, non immorale ma dotata di un’altra moralità. È un tema vivissimo nel cinema di genere dai tempi di The Wicker Man, fino ai più recenti The Green Inferno, The Ritual, The Apostle (e al videoclip dei Radiohead). Ma in Midsommar anche questo topos viene riscritto. Innanzitutto nello scorrere del tempo, che classicamente è scandito dall’alternarsi tra giorno e notte, mentre in questo caso è dilatato in un abbacinante giorno dove tutto è limpido e tutto è visibile. Altre anticipazioni, altre trappole narrative, vengono lasciate inesplose: allora un urlo improvviso cade nel vuoto, una frase sospetta non viene valutata, una persona scompare nel più totale disinteresse. I protagonisti stessi arrivano a rendersene conto – e dovrebbero impazzire di terrore, dovrebbero provare a fuggire o almeno a innescare lo scontro finale. Eppure non succede niente. Così fin dalla prima scena il genere horror continua a far capolino tra le pieghe della narrazione, ritraendosi subito dopo, lasciando il campo a quell’insopportabile lutto che ci portiamo dietro fin dalla prima sequenza.

Finché non arriviamo alla sequenza finale, che anche in questo caso non ha niente di misterioso o rivelatore, né concede il classico scontro tra le “forze del male” e i protagonisti. Tra i colori sgargianti e la colonna sonora festante, si compie finalmente non la vittoria del Male o del Bene, ma la catarsi del lutto. La protagonista, unica superstite, accetta di unirsi alle “forze del male” per poter essere felice. Questa evoluzione del personaggio è simile a quella presente in altri horror recenti, per lo più prodotti da A24 e Blumhouse, in cui il passaggio dal Bene al Male segna il raggiungimento della felicità. Ma in alcuni film questa evoluzione è ancora limitata a una conversione demoniaca (Hereditary, The VVitch). In altri, è essenzialmente un colpo di scena (Us). In alcuni casi, la commistione tra generi funziona, ma rischia di rinchiudere il film in un altro recinto – che in Get Out e Us è quello ancor più stretto della commedia. Tra tutti, Midsommar sembra il film più completo e consapevole: la conversione finale non è orchestrata da nessuna forza sovrumana, ma dall’attesa dello spettatore stesso, che costruisce il film insieme al regista sui binari del cinema horror, e dalla plausibile evoluzione psicologica della protagonista Dani Ardor, che ha soltanto bisogno di dare un senso alla propria esistenza.

Giovanni Peparello

Photocredit: Mondo Fox, Auralcrave

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