Murene Antonucci

Tutto torna, per i figli del Sud – “Murene” di Manuela Antonucci

«Che cosa siamo andati a fare sull’Arneo? Cosa cercavamo? »

(Vittorio Bodini, da Omnibus, 4 febbraio 1951)

Tornare. Per alcuni è qualcosa di più: una condanna o un’esigenza, talvolta le due cose insieme. Le radici si stringono alle caviglie, il loro richiamo è forte. Riguarda allo stesso modo tutti i figli del Sud che stanno lontano da casa o dalle liturgie della terra, e loro malgrado hanno la disgrazia (o la fortuna?) di doversi guardare allo specchio molto più degli altri, sperando di riconoscervisi sempre.

Pozzo d'Arneo

Per i figli del Sud i fallimenti hanno un peso specifico diverso, e così gli affetti, le tradizioni, la lingua madre; non è il piagnisteo di un popolo pigro, ma la condizione di un meridione “stanco di solitudine e di catene”, come quello che Manuela Antonucci descrive nel suo romanzo d’esordio, Murene (Italo Svevo Edizioni). Sullo sfondo della mobilitazione per l’occupazione dell’Arneo, l’agro salentino dove, negli anni Cinquanta, i lavoratori agricoli si organizzarono per riprendersi la terra che spettava loro di diritto, si intrecciano le vite di uomini e donne stretti da vincoli ancestrali, orfani di uno Stato indifferente, clandestini della Storia; in mezzo a loro c’è l’Anna, figlia-moglie-madre secondo le più convenzionali etichette, ma personaggio-chiave anche quando, la notte in cui la protesta dei braccianti ha inizio, scompare nel nulla.

Murene  è, prima di ogni altra cosa, la ricostruzione di un mondo fuori dal mondo, dove la Storia si manifesta nei simboli – il partito, i libri, la locomotiva – e si ostina a scardinare un microcosmo diviso tra chi cambierebbe tutto e chi non cambierebbe niente. C’è Nino, impegnato a innalzare il falò per la festa patronale (“il più alto che si sia mai visto”); c’è la Pietra, l’esperta maciara  che toglie l’affascino; i matti e i bambini, i buoni e i cattivi, Tonino e Pompilio, alle prese coi ricordi. Sembra un cassetto velato di polvere dove si conservano cose preziose, ma di cui si indovina lo stato di abbandono.

L’autrice, salentina giramondo che negli ultimi anni si è occupata soprattutto di narrazioni audiovisive, srotola sulla carta un graphic novel  di parole, restituendo alla campagna e alle vicine coste dello Ionio profumi e cattivi odori, sfumature di colore e temperature, con un piacere perfino tattile – le pagine intonse del pregevole volumetto, da spartire col tagliacarte, ricordano la juta dei sacchi per le sementi. E dal passato di Manuela Antonucci riemerge anche la lingua, schietta come sa essere solo quella contadina, puntellata di espressioni dialettali che da un lato trattengono l’eredità del passato e dall’altro affidano alla saggezza popolare ciò che nessun dizionario saprebbe tradurre in prosa.

Terre d'Arneo

Recenti studi sulle rivolte agrarie della metà del Novecento hanno riportato alla luce il ruolo di primo piano delle donne: si diceva della Pietra, custode di un sapere antico che si tramanda nelle volute dell’olio sull’acqua; ma è l’Anna a contenere allegoricamente il senso della storia, sintesi di tutte le esperienze e di tutti i destini. Partorisce Liberata con dolore, ma lo sforzo è tale che si assopisce sfinita, come in una specie di sogno: tanto costa dare la vita in quel pezzo di terra ai margini del mondo, dove i padroni continuano a negare ai più deboli la speranza di un risarcimento. Oggetto del desiderio morboso di Pompilio, che a un certo punto la strattona non capacitandosi di come possa non essere sua, l’Anna sembra designata al sacrificio, che neppure l’amore di Tonino e i vagiti di Liberata possono evitare: mentre si allontana dall’uscio di casa, la sua immagine sembra disperdersi come la sabbia portata a pelo d’acqua dal fondo del mare. Dieci anni dopo, il suo anello riapparso per caso è forse il suggello della sconfitta, ma è anche un’epifania necessaria per smettere di fuggire dalla realtà, perché, nel bene e nel male, tutto torna per i figli del Sud.

L’occupazione dell’Arneo si conclude ai primi del 1951: il ministro Scelba ordina di reagire con fermezza alle dimostrazioni, e le forze dell’ordine pensano di colpire i manifestanti dando ignobilmente alle fiamme biciclette e coperte. La protesta si disperde nel fumo delle braci, e come sempre, dopo un gran frastuono, niente sembra essere davvero cambiato. Ma come scrive l’autrice nelle ultime pagine del romanzo, ciò che connota le azioni degli uomini è l’intenzione: potremo andare incontro al destino certi della resa, eppure anche allora la morte ci troverà fieri, liberati dal padrone e da ogni male.

Occupazione dell'Arneo

(le foto sono tratte da Fondazione Terra d’Otranto e Gazzetta dal Tacco)

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