Il tempo e l’acqua di Andri Snær Magnason – La necessità di raccontare il cambiamento climatico

La letteratura ambientale attrae sempre più interesse da parte di giovanə e meno giovanə. Il desiderio di comprendere le contraddizioni del mondo in cui viviamo, infatti, passa anche dal narrarlo. Da qui nasce la rubrica Tributi alla terra, un nuovo spazio dedicato alla recensione di romanzi, saggi, fumetti (e molto altro) dove l’ambiente è protagonista in tutte le sue sfaccettature. Ogni mese, Tributi alla terra – titolo ispirato dall’omonimo graphic novel del fumettista Joe Sacco – vi terrà compagnia con nuove storie da leggere per (ri)conoscere le disfunzionalità del nostro tempo e provare a trasformarle prima di tutto con nuove parole e nuove immagini.

Con i quaranta gradi estivi in città ormai abbiamo iniziato a farci i conti, non è più qualcosa di eccezionale. Sarà per questo che un giorno di agosto, mentre vagavo in libreria in cerca di ispirazione e refrigerio, l’occhio è caduto sulla copertina di un libro che ritraeva un iceberg. Quanto avrei voluto essere tra i ghiacci islandesi! Sfogliandolo, tuttavia, ho capito che quello non era un libro come tanti alti. C’erano delle fotografie di famiglia ma non era un diario. Era disseminato di dati scientifici ma non era neanche un freddo saggio di climatologia. Leggendo le prime pagine ho cominciato a collegare quell’iceberg al caldo torrido di quei giorni, alla siccità che stavamo vivendo e al preoccupante senso di abitudine che stavamo man mano sviluppando. Così ho cominciato a riflettere su quanto profonde fossero le connessioni tra i poli e la piccola città costiera in cui mi trovavo, destinata nell’arco di qualche decennio a scontrarsi brutalmente con le conseguenze dello scioglimento di quei ghiacci eppure ancora apparentemente ignara, assopita. Ed è così che mi sono ritrovata tra le mani Il tempo e l’acqua di Andri Snær Magnason (Iperborea, 2020, traduzione italiana a cura di Silvia Cosimini), un libro che sa parlare in modo sapientemente transdisciplinare, scientifico ma accessibile, dei cambiamenti che si verificheranno nel prossimo secolo, ossia «nell’arco della vita di un bambino che nasca oggi e arrivi ai novantacinque anni».

Le distanze geografiche non contano molto quando si parla di sistema climatico. Tutto si accorcia, si tocca, si sovrappone, si influenza. Di fronte alle mutazioni climatiche si mostra tutta l’inconsistenza dei confini politici. Anche il tempo non è più lineare, scorre veloce, esponenzialmente, attivando cambiamenti «più grandi di quelli a cui la nostra mente è abituata, più impegnativi di qualsiasi nostra esperienza precedente, più complessi del nostro linguaggio e delle metafore che utilizziamo per orientarci nella realtà». Con Il tempo e l’acqua Magnason, scrittore, narratore, poeta e attivista islandese, decide di raccontare la scienza impregnandola di vita quotidiana, incardinandola nella sua storia familiare, nell’intimità del suo privato. La convinzione, infatti, è che solo raccontando i fatti scientifici mediati da una scrittura di tipo narrativo e autobiografico è possibile attivare la risposta collettiva di cui c’è bisogno. Solo trasformando i numeri in storie si può fare pian piano spazio alla speranza di trasformare l’immobilismo in interventi radicali per tentare di risolvere la più grande sfida mai presentatasi. Per farlo, naturalmente, bisogna credere che una soluzione ci sia. È da questa doverosa premessa che lo scrittore costruisce un racconto fatto di parole ed espressioni – acidificazione degli oceani, riscaldamento globale, scioglimento, saturazione, sbiancamento dei coralli, emissioni – ancora non del tutto note né comprese eppure essenziali per provare a decifrare il futuro, fermarci, smettere di tirare dritto con le nostre faccende quotidiane e finalmente «interessarci alla questione tanto profondamente da eleggere al potere persone capaci di guidare il mondo nella giusta direzione». 

«Non vi piacerebbe tornare sul ghiacciaio?» chiedo. «Come no!» esclama la nonna. «Io ci andrei, ma Árni ormai non ha più tante energie». «Oggi è tutto troppo facile, con quelle super jeep», brontola il nonno con una risatina. «Che divertimento c’è quando è così facile?» «Però è strano», dice la nonna. «In primavera, quando sento l’ordore del ghiacciaio, mi viene una gran voglia di tornare lassù». «L’odore del ghiacciaio?» «Si, in primavera si sente nell’aria un odore particolare; è l’odore del ghiacciaio». «Che odore è? «Bè, ma l’odore del ghiacciaio! Il ghiacciaio non puoi descriverlo, puoi solo viverlo. Quando sei sul Vatnajökull sparisce tutto, ti dimentichi di tutto. Una vastità infinita. Un sogno».

Ma davvero un libro può aiutarci a decodificare la complessità in cui siamo immersi? È questa la sfida con la quale si confronta Magnason. Il Tempo e l’acqua rappresenta il suo tentativo di non restare fermo, un tentativo di contribuire al caos attraverso fotografie, interviste, lettere, diapositive e ricordi della luna di miele dei nonni sul Vatnajökull, uno dei ghiacciai islandesi destinati a morire nei prossimi due secoli: cosa sarebbe l’Islanda – letteralmente terra di ghiaccio – senza ghiaccio? L’autore prova a rispondere con l’obiettivo di mettere fine al ronzio che spesso accompagna l’elenco di dati e notizie sulle molteplici crisi del nostro tempo che tutto sono tranne che silenziose. Tutto è in pericolo, il presente ma soprattutto ciò che lasceremo alle generazioni future. «Ci servono altre prove? Non lo abbiamo ancora capito?» si chiede l’autore. Ci troviamo nell’epoca della grande accelerazione: «Quando nacque mia nonna» osserva Magnason, «nessuno aveva attraversato l’Atlantico in aereo; poco più di quarant’anni dopo eravamo andati sulla Luna». Nel frattempo, considerando lo stato di salute dell’atmosfera e del pianeta, non possiamo non concordare sul fatto che i cambiamenti più grandi avvenuti negli ultimi trent’anni sono un peggioramento su scala globale con specifiche declinazioni territoriali. Ovviamente, questi cambiamenti non nascono magicamente bensì sono frutto di una lontananza più evidente che mai di una gran parte di mondo dalla natura da cui, è evidente, continuiamo a dipendere oggi più che mai osservano Magnason e il dalai-lama in occasione del loro secondo incontro nel 2010. Riavvicinarsi alle alte forme di vita, provare compassione, amore e rispetto verso chi è parte della natura insieme a noi e senza cui non potremmo vivere, renderci conto che il riscaldamento globale può diventare incontrollabile, mettere da parte la fede cieca nel progresso e utilizzare con cautela le tecnologie avanzate che abbiamo creato, applicare i principi dell’ecologia profonda, rallentare e fermarci sono le uniche strade percorribili se vogliamo provare a immaginare e costruire «un mondo che forse non sarà perfetto, ma di sicuro sarà più bello di quanto le parole possano mai descriverlo».

«Le soluzioni sono molte, alcune bellissime».

La pandemia ci ha costretto a fermarci bruscamente, a prenderci una grande pausa collettiva che ha rivelato tutta la vulnerabilità di un sistema iper-globalizzato ma ha fatto anche luce su cosa ci serve davvero e a che cosa possiamo rinunciare oltre che sulla rapidità con cui possiamo decidere di agire. Per creare spazio al possibile c’è bisogno della commistione tra scienza, politica, arte e letteratura nell’ottica di un ribaltamento totale del sistema scolastico capitalistico, «occupatosi dell’individuo, di costruire capitale umano per le imprese impegnate a competere per la conquista di una fetta del libero mercato globale». Se la soluzione è sepolta nell’immaginazione, il sistema scolastico dev’essere necessariamente aggiornato poiché «al centro della scena, oggi, ci sono dei nuovi punti di riferimento: la Terra e la sua atmosfera» con cui occorre imparare a coesistere in equilibrio.

«In futuro un ghiacciaio sarà un fenomeno esotico, raro come una tigre del Bengala. Il fatto di aver vissuto al tempo dei giganti bianchi sarà avvolto in una luce fiabesca, come aver accarezzato un drago o tenuto in mano le uova dell’alca impenne. Per qualche altro migliaio di anni, sicuramente i ghiacciai si conserveranno in Artide, Groenlandia e in Antartide, ma probabilmente non sulle Alpi, né sulle Ande, e saranno spariti quasi del tutto sulla catena dell’Himalaya e in Islanda. La gente si chiederà: com’erano descritti i ghiacciai all’inizio del XXI secolo?»

Effettivamente il compito non è semplice e sicuramente un libro non basterà a innescare le molteplici trasformazioni che servono. Bisogna rivedere quasi tutta l’eredità che ci ha lasciato il XX secolo, azzerare le emissioni di carbonio nei prossimi trent’anni, cambiare il mondo materiale e il sistema energetico che lo fa muovere. Interessarsi alle questioni complesse, prendere posizione e scegliere, però, sono alla nostra portata ed è proprio quello che l’esperimento filosofico di Magnason ci invita a fare, senza troppa nostalgia per ciò che abbiamo già perso: «I paesaggi definitivi non esistono: nella natura nulla è costante, il cambiamento è la sua essenza. […] Tutto ciò che ha vissuto morirà. La bellezza possiamo trovarla dappertutto, anche dove sono state perpetrate le peggiori atrocità». Il cambiamento climatico è qualcosa di infinitamente grande che Il tempo e l’acqua prova a decifrare andando sul personale e insieme sul rigore scientifico, recuperando miti e storie orali per costruire le basi necessarie prima a renderci conto e poi ad affrontare l’abisso (in)evitabile di ciò che verrà.

La copertina de Il tempo e l’acqua è illustrata da Giovanna Giuliano, progetto grafico: XxYstudio

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