Il mondo è come l’impressione lasciata dal racconto di una storia – Un invito all’opera di Roberto Calasso

Sulla quarta di copertina de La rovina di Kasch si può leggere una citazione di Italo Calvino: «Questo libro parla di due cose: la prima è Talleyrand, la seconda tutto il resto». Una recensione che rivela le ambizioni dell’opera, e del suo autore. Stiamo parlando di Roberto Calasso, fondatore e direttore per 50 anni di Adelphi, nonché autore prolifico, in particolare di una serie di 11 libri strettamente collegati da loro, che comincia proprio con La rovina di Kasch.

La recensione di Calvino rivela l’ambizione di Calasso (e in qualche modo di Adelphi stessa): raccontare tutto, cercare le connessioni che tengono assieme ogni aspetto della realtà attorno a noi. 

Raccontare «tutto il resto» è un programma non da poco: ma di cosa parlano esattamente questi 11 libri? 

Il rito, il mito, il ruolo della letteratura nel decifrare il mondo, lo spazio del sacro e dell’invisibile in una società secolarizzata, Kafka, Proust ovviamente, tantissimo Baudelaire, filosofia, soprattutto quella eretica, dei mistici, di Guénon, di Schopenhauer, di Jung, del Platone delle opere meno battute, e per finire di Nietzsche, che è il santo protettore di tutta la casa editrice, dato che fu proprio per pubblicarlo che l’Adelphi fu fondata da un gruppo di scissionisti dall’Einaudi.

Probabilmente questo elenco non aiuta molto a capire di cosa parli Calasso nelle sue opere. 

Non è un problema: è un bene che la letteratura porti in posti sconosciuti

Se dovessimo trovare a tutti i costi un elemento comune che attraversa l’opera nel suo complesso, penso si possa dire che è un’indagine sul modo in cui pensiamo, sulle dorsali del pensiero, sui presupposti dei nostri ragionamenti, che cambiano lentamente ma costantemente e dei quali spesso non ci rendiamo conto.

Proviamo a fare un esempio.

Uno dei temi sui quali Calasso torna più di frequente è il sacrificio

Per millenni gli uomini sentirono la necessità di ritualizzare la violenza che esercitavano nel mondo attorno a loro. Fosse l’offerta di una pianta, l’uccisione secondo certe regole di un animale, o addirittura di un altro essere umano. Perché accadeva? Era un tentativo di esorcizzare una colpa? Un modo di entrare in contatto con il divino? Un’esigenza di ordine?

Difficile dirlo. Quello che sappiamo è che il sacrificio era praticato dagli uomini preistorici, dagli Antichi Greci, nell’India vedica, in Cina, presso gli Ebrei, presso le civiltà precolombiane. E che, a un certo punto, in (quasi) tutto il mondo queste pratiche cessarono.

La riflessione intorno al sacrifico ci dice qualcosa sul mondo in cui viviamo? Apparentemente potrebbe sembrare un relitto della storia, che non ci riguarda più. 

Il punto è che il sacrificio è cessato, ma l’uccisione invece è continuata, con strumenti sempre più deboli per tentare di spiegarla e, anzi, con un grande impegno per eliminarla dalla discussione. 

Come spiegare altrimenti la necessità di tenere nascosta in mattatoi legali e sterilizzati l’uccisione di milioni, di miliardi, di polli, bovini, maiali? Come spiegare la necessità delle regole sulla macellazione “caritatevole”, che prevedono lo stordimento con una scarica elettrica degli animali, «che serve a stordire chi uccide, più di chi viene ucciso» (sempre Calasso da Il cacciatore celeste)? Come spiegare la distruzione delle foreste del mondo, dalle quali dipende la nostra sopravvivenza e che invece continuiamo a disboscare anno dopo anno? 

Con una coincidenza curiosa: le foreste vengono distrutte per far posto alle piantagioni di mais e soia che serviranno poi a rifornire l’industria della produzione della carne – siamo forse nel mezzo di un sacrificio universale e inconscio, in cui la vittima è la Terra?

L’uomo antico non era meno violento di noi, ma aveva provato a costruirsi uno strumento per fare i conti con questa sua tensione, il sacrificio. Vista da questo punto, possiamo continuare a sostenere che la riflessione sulla violenza, sull’uccisione, sulla necessità di prendersene la responsabilità non riguardi allo stesso modo gli uomini del Neolitico, gli Ebrei dell’Antico Testamento, i ritualisti dell’India arcaica e noi?

È in punti come questo che Calasso ci vuole portare. Punti dove il modo consolidato di vedere le cose si incrina.

Ma attenzione, nella sua opera non c’è un tentativo moralizzante, né una qualche forma di programma. Si sollevano delle domande scomode e ineludibili, non si danno risposte.

Forse perché Calasso nutre un certo scetticismo nei confronti del ragionamento logico. Nella sua riflessione sul funzionamento del pensiero è molto chiaro che la logica, la razionalità, sono un parto recente della mente. Chi vuole arrischiarsi verso le foci del pensiero, non può portare con sé la pretesa di risposte chiare e univoche.

«Il mondo è come l’impressione lasciata dal racconto di una storia», recita la citazione d’apertura di Ka, uno dei libri più belli di Calasso. Le verità che nascono dal ragionamento hanno il fiato corto: il mondo è simile a un’”impressione”. 

Per questo l’opera di Calasso è così ostica, a tratti incomprensibile, a tratti contraddittoria  (cosa che gli ha attirato non poche critiche nel corso degli anni). Non punta a fornire fatti inconfutabili. Mira più in alto, a una verità, a una conoscenza che non è frutto del ragionamento, ma che segue la via stretta tracciata da questa “impressione”. Forse qui potremmo scomodare la Conoscenza con la C maiuscola, quella di cui parlano Platone, Confucio, il Buddha. 

Può sembrare un concetto astratto, ma fateci caso: non è forse vero che le cose della nostra vita che più sentiamo vere non nascono da una constatazione razionale, ma da qualcosa di diverso, più incontrollabile, non verificabile, eppure così incontrovertibile?

L’opera di Calasso ci mette su questa strada tortuosa e ripida: difficile dire dove porti – probabilmente non è neppure così importante –, ma una volta che la si è imboccata il mondo attorno a noi non è più quello di prima.

Davide Martello

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