Tre gocce d’acqua | Valentina D’Urbano

Quando ho finito di leggere Tre gocce d’acqua di Valentina D’Urbano (Mondadori, 2021) mi sono chiesta: e ora come lo racconto questo romanzo?

Come faccio a parlare di tre persone che pur non scegliendosi hanno provato ad amarsi come potevano in un modo ruvido come è il nostro? 

Celeste, la protagonista del romanzo, condivide la sua storia di vita con due persone speciali, Pietro e Nadir. Hanno un rapporto a tre intenso e difficile, da piccoli litigavano con la ferocia dei fratelli che non vedono l’ora di spaccarsi la faccia l’un l’altro. Vivono il loro rapporto tra rabbia, gelosia, dolore e speranza ma sempre di condivisione. Chi ha fratelli o sorelle sa che l’infanzia è piena di ricordi anche scoloriti, imperfetti e forastici.

Tre gocce d’acqua è un libro che ti spezza quasi il fiato perché si blocca alla gola. Impossibile non affezionarsi a Pietro, così bello e pieno di ideali che lo portano fino in Siria a combattere per la libertà del popolo curdo, ma è lì che il suo tragico destino si compie e la sua scomparsa segna profondamente gli equilibri delle sue due famiglie, quelle di Celeste e Nadir. Sono questi ultimi due personaggi, fratelli-non-fratelli, che hanno sempre avuto un rapporto difficile. Prima sono rivali che si azzuffano, poi alleati che si spiano, poi amanti che vogliono distruggersi, primeggiare, vincere l’amore di quel fratello in comune, Pietro, che li unisce e allo stesso tempo li separa. È Nadir a dire a Celeste all’inizio del romanzo:

«Tu hai già capito, puoi anche non ammetterlo. Questa è una cosa nostra. Nessun altro può mettersi nei nostri panni. È la nostra storia, è una faccenda tra noi tre.» (pag. 12)

Valentina D’Urbano

Celeste ha una disabilità, una rara malattia con cui è nata: l’osteogenesi imperfetta, che rende le sue ossa fragili come cristallo. A otto anni scopre di avere ossa fragili come il vetro: un piccolo urto, uno spigolo, persino un abbraccio troppo stretto sono sufficienti a spezzarla. Il suo corpo è come l’esoscheletro di un riccio di mare.

Attraverso la sua voce da trentratreenne ripercorriamo gli anni trascorsi insieme ai suoi fratelli, vediamo questo profondo legame che li unisce rinsaldarsi e diventare indissolubile perché Celeste, Pietro e Nadir sono come tre satelliti che orbitano costantemente ognuno nell’orbita dell’altro. Non riescono a stare lontani, non riescono a stare vicini. 

Questa storia potente e viscerale, che affronta spigoli e anche disfunzionalità relazionali, non è solo piena di emozioni che arrivano dritto in una parte dello stomaco oscura. C’è Pietro che lascia tutto quello che ha, la famiglia, il lavoro, il paese fortunato in cui è nato, e parte per combattere.

«Perché un uomo decide di condannarsi a morte per un popolo con cui non ha nessun legame?» (pag. 48)

Pietro un giorno sparisce e nessuno sa cosa gli è davvero successo. Tutto cade in pezzi. 

«Arriva un momento in cui è necessario prendere una posizione, concretizzare il pensiero, tradurlo in azione. Ci sono uomini e donne a cui questa occasione non capita mai. A me è capitata, e ho deciso di sfruttarla. Ho studiato per vent’anni pensando di poter un giorno fare qualcosa, contribuire a realizzare l’eguaglianza in cui credo. La maggior parte delle persone vive la propria vita facendosi attraversare. Questo è l’unico modo che avevo per attraversarla, e spero capirai. Non so com’è successo, non so come sono morto. Spero sia servito a qualcosa.» (pag. 364)

In questo suo settimo romanzo, Valentina D’Urbano conferma un talento raramente puro capace di calare i suoi personaggi in una realtà complessa fatta di contraddizioni e fragilità. Quello che vi consiglio è di farvi un regalo, leggete questo romanzo e sarà una delle letture più belle di questo 2021.

«In questa vita niente e nessuno ci appartiene davvero, e arriva il momento in cui ognuno di noi deve restituire qualcosa al mondo. Io ho restituito Pietro, l’ho lasciato andare.» (pag. 368)

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