Andrea Gatti e la sua fuga dei corpi

Partire è più coraggioso di restare. Questa è la frase per descrivere meglio questo romanzo (d’esordio) di Andrea Gatti. I due protagonisti, Vanni Abrante e Daniel Tedla, sono viaggiatori di luoghi fisici che vogliono essere anche luoghi metaforici dell’anima.

Ho tra le mie mani questo romanzo edito da Pidgin Edizioni dall’anno scorso. Mi ha accompagnata attraverso la sua lettura quando ero con mio padre in ospedale mentre a lui venivano somministrati farmaci immunoterapici in quanto paziente oncologico. Il suo corpo stava fuggendo via e ho compreso davvero, come l’epigrafe del libro ci ricorda, che è ridicolo come ci bardiamo per questo mondo (v. Franz Kafka). Ho fatto della sincera fatica ad arrivare fino all’ultima pagina del libro perché oggi mio padre non c’è più. Ma questo poco c’entra con il valore di questo romanzo, che alterna i punti di vista dei due protagonisti nella sua struttura a tre parti più anche l’epilogo estremo.

Andrea Gatti

Vanni, ragazzo mediocre tutto teso verso degli obiettivi che non lo soddisfano, lascia Roma per Bologna e Daniel, ragazzo di colore e orfano, che vuole essere un figlio di puttana fino in fondo, che è un po’ come il personaggio di Bertrand ne L’uomo che amava le donne di Truffaut per lo sguardo rapace e la capacità di seduzione, si trasferisce a Roma nello stesso quartiere dove è cresciuto il primo.

«Io e Daniel erano anni che ci inseguivamo. Quando tornavo a Roma sapevo che tornavo a Ravenna passava da Bologna e si fermava sempre più del previsto. Ogni volta ci facevamo una suonata assieme, riguardavamo i nostri film preferiti o uscivamo con i miei amici o i suoi, che poi sono diventati più semplicemente i nostri. Prima di separarci ci salutavamo sempre con una stretta di mano e una pacca sulla spalla. La frase con cui ci salutavamo era sempre quella: Avremo modo. Dopo tre anni passati a inseguirci, penso, finalmente un modo l’abbiamo trovato.»

– A. Gatti, La fuga dei corpi, pag. 72

Tra prove di università, lavoro e relazioni affettive che avrebbero potuto far soccombere l’autonomia conquistata, si ritrovano in una forzata autentica solitudine scegliendola pienamente. La vita per loro è un esercizio per il regno dell’amore e non viceversa. In più l’essere umano non si racchiude in una sola e semplificante etichetta. Perciò decidono di tagliare i ponti con tutti e di mettersi in viaggio per fuggire da uno stile di vita preimpostato e soffocante. La meta è Cala Bruja, una spiaggia nel deserto andaluso, che ospita una comunità autosufficiente dedita all’esplorazione di qualunque forma di piacere.

I due amici attraversano vari luoghi suonando agli angoli delle strade con i volti mascherati, con tutta l’insoddisfazione, l’inquietudine, l’irrequietezza che ristagna dentro di loro (e forse anche dentro di noi).

Il viaggio è necessario, e noi dobbiamo ricominciare a divenire pellegrini consapevoli della complessità.

«Mi aggiro per la casa studiandone gli infissi, ascoltando le gocce ritardatarie della pioggia cadere in qualche anfratto di là del muro.

Qui un tempo ci abitava qualcuno. Qui ci mangiava, ci faceva l’amore, ci piangeva qualcuno; adesso ci siamo noi che calpestiamo i morti, che camminiamo sulle rovine. Qui c’era qualcuno che adesso non c’è più: ha preso la porta, ci ha poggiato la mano sopra e l’ha aperta, si è fermato, ha guardato dentro un’ultima volta, poi ha chiuso la porta e se n’è andato per sempre, lasciando tutto così com’è.»

– A. Gatti, La fuga dei corpi, pag. 18

Mentre Vanni è alla ricerca di se stesso e di uno scopo nella vita, Daniel incarna il nichilismo più totale e più distruttivo. Per Vanni è fondamentale trovare una comunità, degli amici, un luogo in cui sedersi ma che sia lontano da tutto. Per Daniel, invece, la meta è il viaggio fatto da scorribande notturne, esibizioni canore per racimolare qualche spicciolo, piaceri sessuali effimeri. Cosa c’è oltre il viaggio? O una volta raggiunta la meta? Forse solo l’orrore di una vita fatta di convenzioni o infelicità o ingiustizie o condizioni poste solo dalla nascita o forse tutto insieme.

Come potrebbero essere Vanni e Daniel secondo l’AI DALL-E

Il loro è un percorso di iniziazione reciproca, una prova per dimostrare a se stessi di poter ottenere tutto ciò che vogliono. Ma la condivisione del tempo e dello spazio diventa assoluta e presto entrano in conflitto:

«Vanni è apparso solo un attimo, poco fa. Reggeva un sacco pieno di carbonella che ah versato nella buca. Si è voltato a guardarmi un istante, poi è sparito nuovamente oltre il canneto. Non è lo stesso Vanni che ho conosciuto, questo è poco ma sicuro. È il frutto di una stregoneria. Un mostro, un’ombra. Ma qualunque cosa sia, non riesco a lasciarla andare. Uno con se stesso è sempre spietato quando dovrebbe avere pazienza, poi quando dovrebbe odiarsi è sempre compiaciuto.»

– A. Gatti, La fuga dei corpi, pag. 305

Il rapporto si incrina e viene fuori solo la consapevolezza di un’impotenza umana che è sempre stata lì, durante tutto il viaggio, e che è simile a una ferita posta dove lo sguardo non può arrivare. Il rapporto di amicizia tra Vanni e Daniel si frantuma sotto il peso della frustrazione di voler abbracciare l’altro e soffocarlo allo stesso tempo. Si consuma nelle ultimissime pagine l’estrema violenza, frutto di una disillusione che non può essere detta.

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