I dolori di un giovane American Born Chinese

Definire Gene Luen Yang semplicemente fumettista può risultare alquanto riduttivo. Perché se a renderlo qualcosa di più già basterebbe la sua instancabile attività di divulgazione e promozione della letteratura a fumetti come forma espressiva e strumento educativo – cosa che ha portato la Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti a nominarlo nel 2016 Ambasciatore nazionale per la letteratura dei giovani -, è leggendo le opere di questo artista e insegnante sino-californiano che ci si rende conto di quanto stratificato sia il suo lavoro, racchiuso dentro a un mondo letterario tanto dolce e sensibile nella sua coerenza tematica, quanto strabiliante a livello tecnico e linguistico. Ogni tavola di Yang sembra facile, naturale, addirittura infantile; perché come tutti i grandi anche lui ha quel dono maledetto, quello che fa sembrare facili le cose difficili, quello che nasconde sotto strati di spontaneità una mole di lavoro precisa, maniacale ed esatta.

In Italia lo si conosceva solamente per il suo Dragon Hoops, reportage autobiografico a fumetti, pubblicato nel 2020, in cui Yang usa il mondo del basket scolastico per farne sia analisi sociale che riflessione sul suo ruolo di artista, padre e marito in un paese complesso come gli Stati Uniti; ma ora Tunué fa un salto indietro e porta in libreria anche American Born Chinese, folgorante esordio dell’autore, datato 2006, capace di diventare primo graphic novel americano ad essere nominato e premiato in contesti letterari esterni al mondo del fumetto.

Come si evince chiaramente dal titolo, il libro parte ancora una volta da uno spunto autobiografico, per raccontare la fatica di nascere e crescere in un paese fondamentalmente straniero e l’incapacità di venire a patti con la condizione dettata dalle proprie origini. Un argomento affatto spinoso e delicato, in particolar modo all’epoca dell’America ancor più guerrafondaia e sciovinista post 11 settembre, che Yang riesce però a inscrivere in una narrazione divertita, divertente e leggera, orchestrando un gioco di scatole cinesi (brutta battuta, perdonatemi, ma è così…) che mischia stili e generi in un continuo rimpallo culturale tra american way of life e tradizione orientale.

Chin-Kee

Il divino Re Scimmiotto insofferente al suo essere primate, il giovane Jin Wang innamorato della bella Amelia ma bullizzato dai compagni per la sua etnia e lo strano duo formato dal popolare Danny e dal fastidioso cugino cinese in visita Chin-Kee sono quindi i protagonisti delle tre storie che si alternano tra loro, ognuna affrontando il tema del libro da un punto di vista diverso e traendo forme, stereotipi e situazioni ora dalle leggende cinesi, ora dall’high school drama e dalla sit-com (con tanto di risate e applausi in sottofondo). Il tutto a mollo in un contesto estremamente pop che tocca l’immaginario anni Ottanta-Novanta di chi è cresciuto con il cinema di John Hughes e Quentin Tarantino, con i manga e i Looney Tunes, con i robottoni giapponesi e i Transformers, con il picchiaduro videoludico di Street Fighter e Mortal Kombat e i viaggi tra le nuvole di Super Mario. Ispirazioni in bilico tra Oriente e Occidente, dove il tratto comune sta nell’ironia, nella strizzata d’occhio, nella violenza fisica e morale così stilizzata da far sorridere anche quando è truce. 

Re Scimmiotto

Si ritrova anche molto Neil Gaiman nella scelta di Yang di fare incontrare sacro e profano, divinità ed esseri umani accomunati da debolezze e incertezze sul futuro, costruendo così un racconto sull’accettazione di sé che trascende il discorso di partenza sull’etnia dell’autore per farsi universale, in un’opera morale che implicitamente ci invita anche ad accogliere l’altro da sé, il diverso come portatore di storie estranee alla nostra e per questo da scoprire e conoscere. Perché isolarsi, nascondersi e ghettizzare non rappresentano mai la scelta giusta: dietro a ogni sofferenza c’è sempre una testimonianza che vale la pena di essere raccontata e ascoltata.

Jin Wang

Gene Luen Yang è un guazzabuglio di tutti questi elementi, ma al tempo stesso un autore unico nel suo genere, come dimostra il fatto che sia entrato nella scuderia DC Comics nonostante uno stile diametralmente opposto da quello a cui l’estetica dei supereroi ci ha abituati. È riuscito, con ironia, sensibilità e invidiabile senso del ritmo, a sintetizzare influenze e contaminazioni, creando un linguaggio tutto suo che non è sterile omaggio, ma elemento costitutivo coerente di una poetica che fa della multirazzialità e della multiculturalità valori da difendere e da diffondere. E se ancora c’è qualcuno che vede nel fumetto una forma inferiore di letteratura, è evidente che ha disperatamente bisogno di conoscere la sua opera.          

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