Esplorando In yoga, il racconto di una seduta per Silvio Bernelli

Sono appena tornata dal Nepal e, esattamente come tutti quelli che partono in una stagione inconsulta, sto ammorbando i miei conoscenti (a volte anche gli sconosciuti che si accompagnano a essi) con i miei racconti e i miei vagheggiamenti. In ogni cosa che accade nella mia vita torinese di tutti i giorni riesco a trovare un parallelismo con ciò che ho vissuto in Nepal. Con quello che ho visto, ho imparato, ho sentito, in una terra abitata ugualmente da buddhisti e induisti, che si spartiscono il territorio—un tempio là, una stupa qui, una pagoda lì—per poi abitarlo insieme, mescolando credi e usanze, divinità e pratiche. 

Non è quindi un caso che ricolleghi questa esperienza alla lettura di In yoga di Silvio Bernelli pubblicato da Compagnia editoriale Aliberti qualche settimana fa. 

Non è un parallelismo forzato, lo prometto. Perché, proprio come racconta il Praticante che appare fin delle primissime pagine del libro, sono stata avvicinata da dei santoni nei pressi del tempio di Pashupatinath, manifestazione di Shiva, che mi hanno disegnato il trikuti, una macchiolina rossa sulla fronte, tra le sopracciglia, a simboleggiare il mio terzo occhio. Esattamente come immagina il Praticante, anche loro mi hanno chiesto una manciata di rupie nepalesi (cinquecento, per la precisione). L’esperienza vissuta mi ha quindi permesso di sentirmi ancora più coinvolta nella lettura di In yoga.

Seguire il Praticante durante un’intera seduta—dallo srotolamento del materassino, il posizionarsi su di esso, la sensazione del proprio corpo a contatto con il terreno, i piedi appoggiati sulle ginocchia nella prima posizione, la più semplice, la sukhasana, in tutte le sue riflessioni, nel suo abbandonarsi—è un’opportunità unica che ci consegna Silvio Bernelli in questo libro. Bernelli, scrittore e insegnante di yoga, conosce profondamente i due punti di vista che si avvicendano nelle pagine: quello del Praticante e quello del Maestro.

Ma quel è l’obbiettivo del Praticante? Perché impegnarsi in un’attività così faticosa, che presuppone il desiderio profondo di guardarsi dentro?

Ho sempre dato per scontato che chi praticava yoga fosse più calmo, più nel momento, più rilassato e centrato di chiunque altro. Ma forse non è sempre così. Forse non tutti si avvicinano per lo stesso motivo alla pratica. Quello che sicuramente accade, però, è che nel momento in cui praticare diventa una parte importante all’interno della propria vita, si comincia a mettere in discussione l’attaccamento alla materialità delle proprie esistenze.

Non è un movimento semplice: nella nostra esperienza occidentale, il possedere, desiderare, aspirare ci rappresentano più di qualsiasi altra cosa. Rappresentano gabbie mentali che a volte ci impediscono di andare più a fondo, di abbandonarci.

Praticare senza concentrarsi sull’obbiettivo (che l’obbiettivo sia riuscire a fare le verticali sulla testa, compiacere il Maestro o, meglio, raggiungere una piena conoscenza di se stessi), ma abbandonandosi, diventa quindi un atto di completa libertà. Lo si raggiunge solo con pazienza.

Nella lettura, uno degli elementi che stupisce chi non ha esperienza nel praticare, è come la dimensione individuale si mescoli a quella collettiva, fino a confondersi in un presente immobile, in un tutto permeabile.  

È il canto dell’Om, sussurrato, bisbigliato, da alcuni, durante la seduta, che unisce i Praticanti riuniti nella sala.  Un gesto intimo, che ritrova la sua dimensione più ampia nella coralità, nello scontro e l’incontro con gli altri Om, sussurrati, bisbigliati e si sincronizza, nel respiro e nelle tonalità.

“Il tragitto della consapevolezza è sempre dal fuori al dentro, dall’esterno all’interno, dalla vita che romba oltre le pareti della sala yoga, lungo le strade ostaggio del traffico, gli enormi palazzi in cui le vite di centinaia di persone si sfiorano senza mai toccarsi”. È dunque una presa di coscienza, quella del Praticante, che parte dal desiderio di conoscersi intimamente, fino a diventare un gesto rivoluzionario, che coinvolge tutti.

Per continuare a citare a sproposito il mio viaggio, potrei raccontare della seduta di meditazione e sound healing che ho fatto in uno studiolo di Kathmandu per un paio d’ore, circondata da yogini espertissimi, da viaggiatori casuali, come me, dall’inebriante aroma d’incenso e dal suono delle campane tibetane. Lì, più che in qualsiasi altra occasione nella vita, mi è stato chiaro che la concentrazione è una pratica, e in quanto tale bisogna allenarla. Silvio Bernelli ci prende per mano mentre ci cala in uno stato meditativo ed esplorativo, della nostra mente, del nostro corpo e ci fa viaggiare attraverso l’esperienza di un Praticante, che potrebbe essere tutti noi.

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