Baba di Mohamed Maalel – un racconto a più identità

Essere genitori non è un lavoro facile, ma essere figli non è da meno, soprattutto quando si nasce in una famiglia dove culture e lingue diverse si intrecciano, rendendo la ricerca della propria identità un gioco di equilibri sottili.

Baba, romanzo di esordio di Mohamed Maalel, edito da Acce̅nto Edizioni per la collana Accento Acuto, è una lunga lettera che Ahmed – nato in una famiglia dove le lingue e le culture si mescolano – scrive al padre ricoverato in ospedale. A metà tra un dialogo che ripercorre i momenti più significativi che padre e figlio hanno trascorso insieme e una confessione, la storia rivela luci e ombre di una famiglia che deve fare i conti con la multiculturalità, la ricerca costante d’identità e i legami che si fondano su un precario equilibrio che spesso vacilla.

La costruzione dell’identità personale e famigliare è prima di tutto una questione linguistica. Per questo Ahmed e la sua famiglia fanno ricorso a un tacito accordo linguistico che permetta a due realtà diverse di coesistere senza entrare in conflitto. Questo accordo, però, non ha confini chiari e non risolve davvero la questione identitaria. Il protagonista, infatti, vive in costante tensione tra due versioni di sé molto diverse tra loro.

Da una parte c’è Ahmed, tunisino, il cui nome è sinonimo di Muhammad. Un nome sacro, segno di responsabilità, come quella di provare a imparare ogni giorno otto parole di arabo per rendere onore alle proprie origini, di non mangiare carne di maiale, di pregare Allah e di ricordare che gli uomini sono diversi dalle donne e che per questo il femminile di Ahmed non esiste.

Dall’altra parte c’è Moemi, pugliese, che ama i panini con il prosciutto preparati da nonna Raffaella, giocare con le bambole insieme alle proprie cugine, cantare le canzoni della Carrà e scrivere lettere d’amore alla propria madre.

Ahmed e Moemi convivono a fatica nello stesso corpo, il primo troppo italiano per essere un vero tunisino e l’altro troppo tunisino per essere un vero italiano.

L’accordo linguistico della mia famiglia girava però su una parola in particolare. Moemi, un nome e il suo referente. Nessuno, se non in presenza diretta di mio padre, mi chiamava Ahmed, e Moemi si trasformò presto in Moé. Mio padre brontolava in silenzio. Ci era passato anche lui.

La dicotomia tra Ahmed e Moemi la ritroviamo nel gioco di differenze e similitudini che rendono così uniti padre e figlio. Nella lunghissima lettera che è Baba Ahmed scrive a suo padre nella speranza di potergli finalmente raccontare tutto quello che per troppo tempo, frenato dalla paura, aveva tenuto per sé. Il loro rapporto viene affrontato attraverso un alternarsi di passato e presente, creando una narrazione che si muove su piani differenti.

Il presente è il tempo dei dialoghi: brevi scambi tra un Ahmed ormai adulto e una figura paterna che sbiadisce lentamente, mentre guarda nostalgica ai sogni che non ha realizzato e alla terra che ha abbandonato. Il passato, invece, è il tempo del racconto e dei ricordi. Un tempo scandito dalla rabbia, dalla violenza e dalle privazioni, in continuo equilibrio tra le scuse e il perdono.

Alcuni giorni dopo il suo arrivo, mio padre prese a essere più nostalgico e silenzioso. Era sofferente nei confronti di una città che era cambiata nel giro di così poco tempo. Indicava ogni monumento, strada o piazza che gli ricordasse l’infanzia. Cercava di fare archivio delle sue memorie, ma quando non ci riusciva si incupiva. Per mio padre fare memoria era fare storia: non si può fare stori se smetti di ricordare.

L’esordio di Mohamed Maalel è una storia che si legge tutta d’un fiato. Una prosa che tratta con delicatezza anche le violenze più difficili da accettare e che ci porta a riflettere sulle dinamiche che muovono il complesso universo dei rapporti famigliari.

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