McCarthy e quelle strade illuminate dal fuoco

Le nostre strade sono queste qui, segnate in nero. Le strade statali.

Perché si chiamano statali?

Perché una volta erano di proprietà degli stati. Di quelli che all’epoca si chiamavano stati.

E adesso di stati non ce ne sono piú?

No.

Che fine hanno fatto?

Non lo so di preciso. È una bella domanda. Ma le strade ci sono ancora.

Il viaggio di un padre e un figlio, verso la sperata salvezza, a sud, in un mondo distrutto dal disastro nucleare: ecco ciò che La strada (The road, 2010) – vincitore del James Tait Black Memorial Prize e del Premio Pulitzer per la narrativa – intende raccontare.

Una trama che si riduce all’essenziale – proprio come il contenuto del carrello che il bambino traina con sé (una pistola con soli due proiettili, alcune coperte per la notte, del cibo in scatola) e gli stessi dialoghi tra padre e figlio -, ma che è al contempo l’essenziale a cui ci si aggrappa quando la realtà circostante va via via sgretolandosi.

In quella luce avara che chiamavano giorno, con nient’altro che una cartina strappata per orientarsi, il lettore attraversa foreste disboscate, calpesta un asfalto che cede sotto il peso dei propri passi e si riflette in un’acqua scura, gelida.

Ai margini della strada, contempla cadaveri umani accasciati alla rinfusa, rinsecchiti e accartocciati dentro abiti decomposti, nascondendosi dai predoni che avanzano, inquietanti perché ormai incapaci perfino di chiamarsi per nome: gli ultimi esemplari – scrive McCarthy – di una data cosa, che, portando con sé l’intera categoria, spengono la luce e scompaiono.

Questo è mio figlio, disse. Gli lavo via dai capelli le cervella di un uomo. È questo il mio compito.

Poi lo avvolse nella coperta e lo portò vicino al fuoco. Tutto questo come un rituale antico. Quando non ti resta nient’altro imbastisci cerimoniali sul nulla e soffiaci sopra.

Uno scenario distopico – eppure più che mai difficile, al giorno d’oggi, per il lettore da percepire distante -, che attraverso la penna di McCarthy proferisce un messaggio di speranza: perché laddove quello ritratto è da sempre – rivela l’autore – un irreparabile mondo in divenire, è possibile evocare nuove forme, allestire nuovi rituali.

La strada è dunque un romanzo che, seppur breve, esige da chi vi si approccia uno specifico tempo di lettura: il tempo di chi si interroga, e giunge a una scelta.

In un mondo in rovina, passato al setaccio, il nome dei personaggi è il primo dato a perdersi: vale per i predoni, certo, ma vale anche per il padre e il figlio. Il concetto di autorialità – dunque responsabilità – che Byung-Chul Han lega al nome, è in McCarthy rafforzato quando questo viene meno: a sottolineare che quella narrata è una realtà che spaventa, proprio perché ci coinvolge.

Ce la caveremo, vero, papà?

Sí. Ce la caveremo.

E non ci succederà niente di male.

Esatto.

Perché noi portiamo il fuoco.

Sí. Perché noi portiamo il fuoco.

A pochi giorni dalla morte dell’autore, dunque a fronte della perdita di un capostipite della letteratura contemporanea, ecco il lascito che ci è dato: la consapevolezza che le strade – quelle sì – ci sono ancora.

Cormac McCarthy

Leggere McCarthy significa prendere atto di come, a prescindere dallo scenario che ci si para davanti, si è disposti a percorrerle: se utilizzando i due proiettili rimasti in canna, o affiancando chi incontriamo durante il viaggio.

Chiara Correggiari

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