Demoni e scrittura di Isabel Allende

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La copertina del libro di Celia Correas Zapata

Isabel Allende (nata a Lima nel 1942) è conosciuta oggi come la scrittrice più letta dalla seconda metà del XX secolo, come la splendida donna rivoluzionaria che lotta contro violenze e soprusi di ogni genere. Il suo nome divenne celebre quando si fece conoscere come giornalista sfrontata per una rubrica umoristica della rivista Paula (che per destino era anche il nome dell’amata figlia che morirà nel 1992 e a cui dedicherà un romanzo omonimo), per giunta in un paese come il Cile che poco tollerava l’umorismo perché dotato di “insopportabile solennità”, come racconta Allende stessa nella biografia di Celia Correas Zapata, La vita secondo Isabel. Come giornalista infatti era contraddistinta da una sfrontatezza sbeffeggiante, mettendo in discussione tutti i temi considerati sacri nel Cile moralista e prudente degli anni Sessanta.

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La scrittrice con i figli nel 1969

La sua vita di certo non fu facile, conosciuta è la vicenda dell’uccisione dello zio Salvador Allende, che nel 1970 divenne presidente della Repubblica, di ispirazione socialista, fino ai tre anni seguenti quando fu deposto e ucciso durante un colpo di Stato militare, guidato dal generale Augusto Pinochet, a Santiago. Da questo momento inizia l’esilio dal Cile, dove si era trasferita all’età di tre anni, per spostarsi a Caracas in Venezuela. La sua esistenza è stata vissuta tra abbandoni – primo fra tutti quello da parte del padre, Tomás Allende, segretario presso l’ambasciata cilena a Lima, che rivide solo in obitorio (l’episodio venne incluso sia in La casa de los espíritus che in De amor y de sombra) dopo quasi 50 anni – , esili –  non solo il suo ma quello di tutta la famiglia – e violenza (la cui presenza “è sempre sospesa sulle nostre teste, ma continuo a credere nella sorprendente capacità umana di fare del bene”[1]). Una donna forte che ha superato tutto ciò con e oltre – un divorzio doloroso nel 1987 (“A 45 anni, era evidente che avevo poche speranze di rifarmi una vita, come si diceva allora, dando per scontato che la vita di una donna poteva essere solo il matrimonio”[1]), del quale si parla velatamente in Eva Luna (1987), e dolori profondi come la morte della figlia ventottenne Paula, malata di porfiria. A seguito di questo doloroso evento scriverà Paula (1994), in assoluto il romanzo più toccante, il romanzo della “dolorosa memoria”, dove tutto trapela dolore e rassegnazione a un destino ormai segnato.

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In Amazzonia nel 1996

Dopo tutto la scrittrice cilena preferisce la sua vita e non ne avrebbe voluta vivere nessun’altra.  Passò dal giornalismo alla narrativa su consiglio di Pablo Neruda. Nel suo “mondo di spiriti letterari” –  così come definisce la sua esistenza – Allende sente di aver imparato in fondo la lezione più importante: “la sola cosa che si possiede è l’amore che si dà”. Di chilometri ne ha percorsi per via del lavoro diplomatico di zio Ramón, suo patrigno, studiando in molti luoghi diversi (Bolivia, Libano, Svizzera e Belgio). Ricorda ancora oggi come si sentisse patologicamente malata di solitudine da bambina e da adolescente, condizioni aggravate dai continui spostamenti. Ultimo fra tutti fu il trasferimento nel 1989 in California, ormai da adulta, quando sposò il suo secondo marito, William Gordon.

Ho insistito molto sulla vita della scrittrice perché in lei biografia e inventiva si confondono, cedono il posto l’una all’altra in tutta la produzione. “Non permetto mai che la verità ostacoli il cammino di una buona storia – mal che vada, siamo la leggenda che ognuno di noi elabora con i propri ricordi e le proprie esperienze – ma tutto ha un limite”, così scrive nell’introduzione al libro che di lei parla: La vita secondo Isabel. Scrive ancora:

“Quando terminarono le interviste mi sentii esposta e vulnerabile, sentimento che mi è familiare, perché mi sento sempre così dopo aver concluso un libro. Scavando in fondo alla memoria, dove nascono i miei romanzi, mi spoglio lentamente di tutto e arrivo alla fine nuda. Questo libro, più di altri, mi ha costretta a frugare nel passato, a spiegare le mie azioni di essere umano e il mio lavoro di scrittrice; ho l’impressione di aver imprigionato nei caratteri tipografici una versione immutabile di me stessa. (…) L’esperienza di scavare nella propria vita è molto interessante; è per questo, credo, che ci sono tanti seguaci della psicoanalisi. Sono rare le opportunità – eccezion fatta per la psicoterapia o la confessione – di disporre del tempo e della possibilità di osservarci, rivedere il passato, tracciare le mappe del cammino già percorso e scoprire come siamo. Generalmente ci vediamo in modo diverso da come ci vedono gli altri. Impariamo presto a usare maschere che cambiamo con tale frequenza da renderci incapaci di riconoscere il nostro volto allo specchio. Queste lunghe interviste con Celia mi hanno obbligata a fermarmi e a riflettere sul mio destino e sul mio lavoro.”

Prosegue trattando del suo rapporto con la scrittura, con tutte le esagerazioni e le contraddizioni di cui Allende è capace e ormai conosciamo:

“La scrittura è per me un tentativo disperato di preservare la memoria. Sono un’eterna vagabonda e sul mio cammino restano i ricordi, come brandelli strappati al mio vestito. Scrivo perché l’oblio non mi vinca e per nutrire le mie radici, che ormai non affondano in nessun luogo geografico, ma solo nella memoria e nei libri che ho scritto. Spesso, mentre cerco l’ispirazione davanti a una pagina bianca, chiudo gli occhi per un istante e ritorno nella cucina della casa in cui sono cresciuta e alle straordinarie donne che mi hanno allevata (…). La scrittura non è fine a se stessa, ma è un mezzo per comunicare. Che cos’è un libro prima che qualcuno lo apra e lo legga? Solo un insieme di fogli incollati da un lato… sono i lettori a infondergli un alito di vita. Nel migliore dei casi la letteratura cerca di dare voce a chi non ce l’ha o a chi è stato messo a tacere, ma quando scrivo mi impongo il compito di non rappresentare nessuno, di non trascendere, di non dare un messaggio o spiegare i misteri dell’universo, semplicemente cerco di raccontare, usando il tono di una conversazione intima. Non ho risposte, solo domande, sempre le stesse domande che, come fantasmi, mi assillano. La scrittura è un lavoro lento, silenzioso e solitario. Ogni libro è un messaggio racchiuso in una bottiglia e lanciato in mare; non so su quali spiagge approderà, né in quali mani cadrà. Scrivo alla cieca ed è sempre una stupenda sorpresa ricevere lettere o abbracci da lettori entusiasti, significa che qualcuno ha letto le mie pagine, che non le ha inghiottite il mare. Perché scrivo? Non lo so. Per me è una necessità fisiologica, come il sonno o la maternità. Raccontare e raccontare…è la sola cosa che desidero fare. La scrittura dà forma alla realtà, crea e ricrea il mondo. Secondo la Bibbia, al principio fu il verbo, la parola. Dio disse: sia fatta luce, le acque si separino dalla terra. Questa metafora descrive il mondo precedente all’arte del linguaggio e della scrittura: prima della parola c’erano caos, inquietudine e ombra. Prima della parola gli eventi dell’umanità cadevano nell’oblio, non potevamo trasmettere l’esperienza o la conoscenza, raccontare le nostre vicende e spiegarci agli altri; prima del verbo non c’era storia. Così è stato anche nella mia vita: prima di trovare la via della letteratura c’erano solamente confusione e oblio. La parola scritta mi ha salvato da un’esistenza banale”.

1546081_10203479679547076_1737150895941336904_nCosì nel 1982 esce il primo romanzo La casa de los espíritus, ambientato nella casa del nonno materno don Agustín Llona, a cui si ispirerà per il personaggio di Esteban Trueba. Nel romanzo Blanca, altro personaggio, potrebbe ricordare la madre Francisca Llona Barros, detta Panchita. Sono molti i personaggi che si ispirano a suoi familiari, amici (il personaggio del Poeta ricorda Pablo Neruda) o conoscenti, ce n’è solo uno però nel romanzo che è ispirato a una persona reale in toto: è Clara, dietro cui si cela la figura della nonna materna, a cui l’autrice deve il nome, Isabel Barros. In tutta la sua opera trapela un senso di responsabilità sociale. È il personaggio di Nivea, la suffragetta, che è rivestita di una coscienza sociale che non avrà nessuna delle altre protagoniste della scrittrice. Tutta l’opera è pensata come una lunga lettura a suo nonno, o meglio al suo spirito. Allende ha spesso una tendenza per l’eccesso e l’esagerazione. “Volevo scrivere dei miei nonni, ma fui tradita dalla voglia di raccontare. Perché ho iniziato parlando di Nivea? Non lo so. (…) Scrivere La casa de los espíritus fu come aprire una chiusa e un torrente di parole, storie, racconti. Immagini, colori sapori e ricordi mi travolse e mi lasciò a gambe all’aria, fino a oggi. Non mi sono mai ripresa dal tremendo impatto di quel torrente. Ha cambiato la mia vita”. Il libro era nato per poter raccontare la storia della famiglia Llona e Barros e del Cile, ma finisce per allontanarsi dalla realtà e confondersi con l’invenzione narrativa.  Dai fatti drammatici del golpe militare e dell’esilio si passa a un realismo immaginario e magico, come nelle descrizioni:

Film del 1993 con Meryl Streep, Glenn Close e Jeremy Irons

Film del 1993 con Meryl Streep, Glenn Close e Jeremy Irons

“La piccola Clara leggeva molto. Il suo interesse per la lettura era indiscriminato e le facevano lo stesso effetto sia i libri magici dei bauli incantati di suo zio Marcos, sia i documenti del Partito Liberale che suo padre custodiva nello studio. Riempiva innumerevoli quaderni con le sue annotazioni personali, dove rimasero via via registrati gli eventi di quell’epoca, che grazie a ciò non andarono persi, cancellati dalla bruma dell’oblio, e adesso io posso servirmene per far rivivere la sua memoria. Clara chiaroveggente conosceva il significato dei sogni. Quest’abilità le era naturale e non aveva bisogno di quei noiosi studi cabalistici di cui si serviva lo zio Marcos con maggior sforzo e minor successo. Il primo a rendersene conto fu Honorio, il giardiniere della casa, che un giorno aveva sognato serpenti che gli si muovevano tra i piedi e che, per toglierseli d’attorno, li calpestava fino a schiacciarne diciannove. Lo raccontò alla bambina mentre potava le rose solo per intrattenerla, perché le voleva molto bene e gli dispiaceva che fosse muta. Clara tirò fuori dalla tasca del grembiule la lavagnetta e scrisse l’interpretazione del sogno di Honorio: avrai molti soldi, ti dureranno assai poco, li guadagnerai senza sforzo, gioca il diciannove. Honorio non sapeva leggere, ma Nivea gli lesse il messaggio tra scherzi e risate. Il giardiniere fece quello che gli avevano detto e guadagnò ottanta pesos in una bisca clandestina che si trovava dietro un magazzino di carbone.” [2]

Forte è il senso di maternità, il legame tra madre e figlia è totale, come quello tra Clara e Blanca, e poi Blanca e Alba, così come quello reale tra Panchita e Isabel Allende, e la scrittrice e Paula. Scrive: “I figli, come i libri, sono viaggi che ognuna di noi compie dentro sé. durante i quali il corpo, la mente e l’anima cambiano direzione, rivolgendosi al centro stesso dell’esistenza”. Isabel Allende renderà eterna la memoria della sua creatura attraverso il libro che ne porta il nome, scritto durante l’anno di coma in cui cadde Paula prima della morte. Allende lo ricorda nel libro stesso come un momento di preghiera mentre accudiva la figlia, tornata quasi a feto. Ecco per la scrittrice una nuova gestazione, al termine della quale resterà però solo un libro.

In Paula (1994) scrive “la vita è un labirinto di specchi e di immagini deformate”. Allende spiega: “scrivere quel libro è stato un esercizio di riflessione e di memoria. Nel ricordare la mai vita ho verificato di aver camminato in circolo e di aver inciampato più volte egli stessi ostacoli, di essermi imbattuta nelle stesse difficoltà e nella stessa desolazione. Tutto questo si riflette all’infinito, come immagini riprodotte eternamente da specchi messi uno di fronte all’altro. I ricordi sono antichi, sono soggettivi e per questo mi sembra che le immagini negli specchi siano deformi, distorte”[1] . Durante il viaggio verso la morte di Paula, Allende usa la scrittura come consolazione e condivisione di una tale sofferenza, senza lo scandire del tempo, in un’atmosfera mistica (il senso di un’azione che si ripete in se stessa è presente di certo anche in La casa de los espíritus): “Un giorno in più di attesa, uno in meno di speranza. un giorno in più di silenzio, uno in meno di vita. la morte vaga per i corridoi e il mio compito è di distrarla perché non trovi la tua porta.” [3]

Elementi autobiografici sono presenti anche in Afrodita (1997), un saggio più che un romanzo, o meglio “divagazioni sul piacere con varie storie e aneddoti che uniscono la passione del cibo a quella erotica. Scritto a 55 anni, c’è chi ancora oggi si stupisce dell’ardore di una donna che non si comporta come una nonnina con la sua bella età: “Una notte del gennaio 1996 sognai di tuffarmi in una piscina colma di riso di latte in cui nuotavo con la grazia di un delfino. È il mio dolce preferito – il riso al latte, non il delfino – tanto che nel 1991, in un ristorante di Madrid ne ordinai quattro porzioni e poi una quinta, come dessert. Le mangiai senza batter ciglio, con la tenue speranza che quel nostalgico dolce della mia infanzia mi aiutasse a sopportare l’angoscia della grave malattia di mia figlia. Né la mia anima né mia figlia ne trassero giovamento, ma nella mia memoria il riso al latte rimase associato al conforto spirituale. Nel sogno, invece, non c’era nulla di sublime: mi tuffavo e quella crema deliziosa mi accarezzava la pelle, scivolava tra le mie pieghe e mi riempiva la bocca. Mi svegliai felice e mi gettai su mio marito prima che il poveretto potesse rendersi conto di quello che stava succedendo. La settimana successiva sognai che posizionavo Antonio Banderas nudo su una tortilla messicana, lo condivo con guacamole e salsa piccante, lo arrotolavo e me lo mangiavo con avidità. Questa volta mi svegliai terrorizzata.[4]  

Il libro a cura di John Rodden

Il libro a cura di John Rodden

Nella breve introduzione al libro dedicatole Conversazioni con Isabel Allende scrive: “La narrazione è un’esperienza completa, come la maternità o l’amore con l’amante perfetto; è una passione che determina la mia esistenza. Sono dipendente dalle storie. Voglio sapere cosa è avvenuto e a chi, conoscere il dove e il perché. Per me la scrittura è sempre stata terapeutica, perché mi permette di esorcizzare alcuni dei miei demoni, trasformando in forza gran parte del dolore e delle sconfitte. Di certo scrivo perché mi piace, perché se non lo facessi la mia anima inaridirebbe, e morirei.[5]

Isabel Allende ha indossato i panni di giornalista, narratrice di racconti per bambini, autrice di opere teatrali e sceneggiatrice per radio e TV, ma quelli che le stanno davvero a pennello sono quelli di scrittrice, mettendo in gioco tutto e sempre. Come fosse una medium racconta ciò che i personaggi sentono e vogliono che racconti rendendo la trama inaspettata per la scrittrice stessa. Il senso dell’umorismo domina tutta l’opera di Allende come per contrappesare il senso di malinconia e sofferenza. Sensibilità unica, passione esagerata e realismo magico sono concentrati nell’animo di un’unica scrittrice latinoamericana, la più grande, Isabel.

Alla fine, l’unica cosa a cui possiamo attingere a piene mani è la memoria che abbiamo intessuto. Ognuno sceglie la tonalità con cui raccontare la propria storia; a me piacerebbe scegliere la chiarezza durevole di una stampa su platino, ma niente nel mio destino possiede tale luminoso requisito. Vivo tra gradazioni sfumate, velati misteri, incertezze; la tonalità con cui raccontare la mia vita si accorda meglio a quella di un ritratto in seppia…[6]

Cristina Celani

[1] Celia Correas Zapata, La vita secondo Isabel, Feltrinelli, Bologna, 2001.
[2] Isabel Allende, La casa degli spiriti, Feltrinelli, Bologna, 1992.
[3] Isabel Allende, Paula, Feltrinelli, Bologna, 1992.
[4] Isabel Allende, Afrodita, Feltrinelli, Bologna, 2000.
[5] John Rodden, Conversazioni con Isabel Allende, Oscar Mondadori, Milano, 2006.
[6] Isabel Allende, Ritratto in seppia, Feltrinelli, Milano, 2001.

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