Leopardi, Schopenhauer. Solitudini allo specchio

«Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,   /   Silenziosa luna?»

È con questi interrogativi che Leopardi esordisce in Canto Notturno di un pastore errante per l’Asia. Ci accarezza con quesiti esistenziali irrisolti e irrisolvibili, per arrivare a riflettere sull’amaro tema dell’infelicità umana, rischio umano, proprio a tutti i viventi. Le fatue interrogative sono, però, domande retoriche, l’autore conosce l’apocalittica risposta. Fin dai primi due versi egli apostrofa la luna come “silenziosa”, quasi a voler rendere noto il ruolo di muto interlocutore che essa svolgerà per tutti i versi successivi. Il pastore è l’uomo, che si rivolge inutilmente alla luna, chiedendo disperatamente delle risposte che la luna non vuole o, forse, non può dargli. In questa incantevole poesia Leopardi esprime uno dei concetti portanti della propria filosofia letteraria: la vita dell’uomo è allegoricamente trasfigurata e trasportata in quella di un vecchio soggetto che patisce innumerevoli difficoltà, shop1per “obbliarsi” in un “abisso orrido e immenso”: ecco, in queste quattro parole il concetto di infinito. Tale è il desiderio, l’aspirazione incontrollabile dell’uomo. Egli possiede in sé la pulsione a quell’infinito, quella tensione alla felicità illimitata nel tempo e nell’intensità. Un miraggio? Il bisogno incessante di provare piacere che può essere appagato solo da un piacere pari al bisogno che ne ha, quindi incolmabile. Tale affermazione diviene grave al momento del confronto tra la nostra ambizione all’incommensurato e l’innegabile impedimento che la natura rappresenta come limite terreno. I piaceri che ci offre la realtà sono, infatti, perennemente insufficienti al nostro soddisfacimento. Ne consegue che la stessa natura che ci stimola alla brama di piacere è la medesima che ce ne impedisce il raggiungimento.“La Natura non ci ha solamente dato il desiderio della felicità, ma il bisogno; vero bisogno come quel di cibarsi. Perché chi non possiede la felicità è infelice come chi non ha di che cibarsi, patisce la fame. Or questo bisogno ella ci ha dato senza la possibilità di soddisfarlo”[1].

Così, il dolore è provocato dall’incolmabile distanza tra ciò che l’uomo vuole per sé e il costante e irreversibile deperimento e logoramento cui la natura sottopone lui e il resto dell’Universo.

«Ogni volere proviene da un bisogno, cioè da una privazione, cioè da una sofferenza. La sofferenza vi mette un temine; ma per un desiderio che tiene soddisfatto, ce ne sono dieci almeno che debbono essere contrariati; per di più, ogni forma di desiderio sembra non aver mai fine, e le esigenze tendono all’infinito, la soddisfazione è breve e amaramente misurata. Ma l’appagamento finale non è poi che apparente: ogni desiderio soddisfatto cede subito il posto ad un nuovo desiderio: il primo è una disillusione riconosciuta, il secondo una disillusione non ancora riconosciuta». Citazione di Leopardi tratta da uno scritto inedito? No, citazione di un pensiero di Schopenhauer tratta da Il mondo come volontà e rappresentazione, 1818. Evidente è la corrispondenza tra i due giganti. Per il filosofo tedesco ognuno di noi è l’espressione di una volontà infinita che si traduce inevitabilmente nell’infelicità. Il desiderio è per definizione mancanza, vuoto, assenza, privazione, con un unico sinonimo: dolore. Per Schopenhauer il soddisfacimento di un desiderio provoca consequenzialmente l’origine di un altro desiderio o la caduta nel baratro della noia e del tedio più terribili. «Dunque la vita oscilla come un pendolo fra il dolore e la noia, suoi due costitutivi essenziali. Donde lo stranissimo fatto, che gli uomini, dopo ricacciati nell’inferno di dolori e supplizi, non trovarono che restasse, per il cielo, nient’altro all’infuori della noia».


«L’infelicità è regola della vita». L’estrema modernità dei concetti espressi da entrambi, o la loro immortalità, risiede in un alshop2tra domanda: non siamo forse tutti parte di questa giostra sussultante? Questo carosello che imperterrito volteggia dandoci le vertigini, una giostra che non si ferma, compiendo rotazioni a ruota, dandoci, talvolta, l’illusione di arrivare ad un apice che, poi, inesorabilmente, è destinato alla caduta. Ci troviamo inchiodati ai sedili della quotidianità, aspirando a raggiungere lo stendardo in alto per poter scendere, per poterci fermare un attimo nella panacea della felicità indefinita. Diamo calci a chi ci sta davanti, sbeffeggiamo chi si trova dietro di noi, ignorando chi non vediamo perché si trova dall’altra parte della giostra ed è coperto dall’albero maestro. Giravolte in aria, grida, urla nella confusione. Finalmente riusciamo a raggiungere lo stendardo in alto, felicità, godimento, appagamento! Noi possiamo scendere dalla giostra a quel punto, gli altri continueranno a rincorrersi, ma noi no, noi possiamo scendere! Scendiamo con il vessillo stretto tra le mani, lo ammiriamo un attimo e ci rendiamo conto che esso non è altro che un biglietto un nuovo giro di giostra. Risaliamo e tutto ricomincia a girare, il prossimo stendardo sarà quello giusto?

Se questa è la metafora possibile, allora per entrambi gli autori l’uomo insegue ciecamente l’infinito senza poterlo sperimentare. In questo clima di illusioni e ombre nel quale l’essere umano si muove, Leopardi e Schopenhauer sembrano prendersi per mano e intraprendere una strada comune che, infine, avrà sbocchi totalmente diversi.

Leopardi dipinge con acquerelli sfocati l’immagine di illusioni figlie della giovinezza, di ricordi figli della vecchiaia. Ed è lì che si trova il piacere (momentanea cessazione del dolore), in qualcosa di inconsistente: nell’aspettativa e nella memoria. Non puoi sentirla la felicità, non puoi afferrarla, ma immaginarla sì. La felicità è una bolla di sapone che bella e cristallina ti vola intorno. Appena provi a toccarla essa scoppia in mille gocce sparse, esplose. Anche Schopenhauer – ambasciatore tedesco del pessimismo cosmico – reclama il ruolo del piacere come momentanea cessazione del dolore. All’interno di questa aura oscura, anche il filosofo trova uno spiraglio. «Fortunato abbastanza colui, al quale resti ancora da accarezzare qualche desiderio, qualche aspirazione. potrà continuare a lungo il gioco del perpetuo passaggio dal desiderio all’appagamento, dall’ appagamento il nuovo desiderio [..]; ma se non altro non cadrà in quella paralizzante stasi che è sorgente di stagnante e terribile noia, di desideri vaghi, senza oggetto preciso, e di languore mortale».

Schopenhauer sostiene che il piacere risiede nel perverso meccanismo di desiderio, suo appagamento e nuova ricerca. Tale funzionamento costituisce la dinamo di un circuito chiuso, un cane che si morde la coda, un “otto” continuo, che non porta mai alla completezza (la fine costituisce anche l’inizio e così via), ma è sicuramente migliore della fiera più temibile per l’esistenza umana: il tedio. Se sono innegabili le affinità tematiche dei due titani del pessimismo, in barba agli assiomi matematici, uguali premesse non portano a uguali conclusioni.

In questa vita di dolore e sofferenza, di continua aspirazione,di continuo tendere senza raggiungere,di permanente fame di infinito, infinitamente insaziabile, il suicidio non risulta forse l’unica soluzione possibile? Leopardi lo cataloga come un gesto di viltà, l’espressione esasperata del pusillanime che, incapace di sopportare il peso del quale la vita in quanto tale lo sobbarca, si arrende. Il defunto suicida non contribuisce a diminuire il dolore,forse il proprio, ma in un’ottica complessiva come quella che adotta Leopardi ciò non è importante. Il suicida lascia un dolore incolmabile nei vivi, in coloro che rimangono a piangere sul suo sepolcro. Anche Schopenhauer vede nel gesto di chi si toglie la vita un atto negativo. Non la valuta un’azione dettata dalla viltà,ma dalla ricerca di una risoluzione che, però, in questo modo non viene raggiunta. Il suicidio non è la risposta alla domanda “perché soffriamo?” né a “come posso smettere di soffrire?”. Uccidere se stessi non è segno di codardia, né negazione della propria volontà di vivere, ma il grido disperato di chi è scontento della propria condizione, di chi non riesce a sopportare ciò che crudelmente gli è toccato in sorte. Il suicida in realtà vorrebbe vivere ed essere felice, palesa tramite il suo atto la forte affermazione della volontà stessa.

La sostanziale differenza tra i due portavoce del pessimismo cosmico è la seguente: mentre per Leopardi il mondo e la realtà sono dominati dalle leggi del meccanicismo e del determinismo e l’unico modo che l’uomo ha per sfuggirle è crearsi delle mere illusioni, per Schopenhauer tutto è il risultato della nostra immaginazione. “È Maya,il velo ingannatore,che avvolge gli occhi dei mortali e fa loro vedere un mondo del quale non può dirsi che esista né che non esista;” Partendo da questa considerazione in incipit, è shop3logico che il sostenitore delle scienze sia Leopardi e non Schopenhauer. Il primo infatti considera la conoscenza razionale l’unico strumento efficace per comprendere a fondo una realtà che è meccanismo, congegno. Il secondo invece vede la scienza come un mezzo che può aspirare solo a portarci una conoscenza parziale, superficiale di quella che noi definiamo come realtà. Di qui in poi la completa separazione dei due pensieri. La filosofia di Leopardi si risolve nella solidarietà tra gli uomini nel dolore, unica cosa che tutti ci accomuna e che invece spesso sembra dividerci. Il risvolto della poesia leopardiana è quindi quello sociale, di concreta azione nell’esistenza dell’uomo. Leopardi auspica la costruzione di una società edificata sulle cementizie fondamenta dell’amore e della fratellanza. L’inevitabile conclusione di Schopenhauer è invece un ritiro nell’arte e nell’ascesi. Schopenhauer,scettico nei confronti dell’uomo,che considera egoista e prevaricatore, risolve nell’ individualismo e non nel collettivismo la sua filosofia. Prendendo in prestito da Hobbes la formula homo homini lupus, il filosofo tedesco assume che il mondo è un inferno che supera quello di Dante,e dove ogni uomo è il diavolo di ogni altro. Unico modo per esprimere la libertà particolare è quella di eliminare la volontà e la dipendenza da essa attraverso l’ascesi che è astensione dal piacevole e la ricerca dello spiacevole, l’espiazione e la macerazione spontaneamente scelta, per la continuata mortificazione della volontà. L’arte infatti,pur consistendo nel perdersi appieno nell’oggetto, ha un’effimera durata e dunque sortisce un altrettanto effimero effetto. Saltando a piè pari dall’arte,alla compassione,alla pietà, Schopenhauer approda al concetto di “noluntas” (stato di non-volere). In conclusione: “quel che rimane dopo la soppressione completa della volontà è certamente il nulla per tutti coloro che ancora sono pieni della volontà. Ma per gli altri, in cui la volontà si è distolta e rinnegata,questo nostro universo tanto reale,con tutti i suoi soli e le vie lattee, è esso stesso il nulla.” La filosofia leopardiana propone un pessimismo di grado maggiore rispetto a quella di Schopenhauer. Il primo infatti vede nella compassione un semplice aiuto per sopportare meglio il dolore. Il secondo presuppone un capovolgimento,un lieto epilogo che si definisce nella salvezza,verso la quale il primo passo consiste proprio nella compassione. Nell’imperitura altalena dell’esistenza che ondeggia tra noia e dolore, Leopardi si dondola aggrappandosi alle catene, Schopenhauer tenta di scendere.

Leopardi e Schopenhauer sono una cosa. Quasi nello stesso tempo l’uno creava la metafisica e l’altro la poesia del dolore. Leopardi vedeva il mondo così, e non sapeva il perché. […] Il perché l’ha trovato Schopenhauer con la scoperta del Wille”[2]

Chiara Mezzetti

[1] Zibaldone, 1831

[2] Francesco De Sanctis, Schopenhauer e Leopardi

* Le illustrazioni di Maja per Le nihilisme, La tentation du néant. De Diogène à Michel Houellebecq, in Les collections du Magazine Littéraire, Hors-Série n° 10, octobre-novembre 2006

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