La nostra “Synecdoche, New York”

In fondo, quella di Caden Cotard è la vita di ognuno di noi, ed è questo che del film scritto e diretto da Charlie Kaufman sconvolge senza poterlo ammettere. Non lo diciamo, ma ogni volta che ci sediamo al cinema e ritroviamo alcuni degli aspetti più intimi delle nostre debolezze e fragilità, ci sentiamo accarezzati dove brucia, violati in quella dimensione di fantasmi e dubbi che solo noi abbiamo il diritto e il peso di portarci dentro. Ecco perché il gioco di parole tra la figura retorica e la cittadina newyorchese dove il protagonista vive in perfetta non-sintonia col proprio egocentrico marasma interiore non è solo un vezzo artistico, è un gioco di specchi, tra la vita di chi recita e quella di chi assiste, senza capire più a un certo punto chi stia davanti alla macchina da presa e chi dietro, e quale sia la vera inquadratura, quasi ad evocare l’illusione sul palco della tragedia greca o il più recente incubo scenico del celebre Truman Show, passando per le contaminazioni oniriche su pellicola care a Kubrick, come quella casa in fiamme che per tutto il film ci farà chiedere se esiste davvero. Anche solo nominando una persona che conosciamo, alla quale andiamo col pensiero quando ne pronunciamo il nome, stiamo inconsciamente maneggiando la nostra personale sineddoche. Se racconto di aver visto Giulia o Marco, i loro volti e i loro nomi sono in realtà le loro vite. Pars pro toto. La nostra vita, i nostri momenti stupendi come i nostri drammi, il nostro volto e il tempo che ci è concesso. Tutto insieme, impossibile da raccogliere in un’immagine, un suono, un episodio.

<< I know how to do it now. There are nearly thirteen million people in the world. None of those people is an extra. They’re all the leads of their own stories. They have to be given their due.>>

La rincorsa di Caden – che di mestiere scrive sceneggiature – non è, allora, così folle, perché il timore della malattia accorcia il tempo a disposizione, mentre la vita che gli rotola davanti aggiunge pagine su pagine di cose da raccontare. Come rappresentare tutto, come raccontare e raccontarsi senza tralasciare nulla, come racchiudere l’universo in atti e scene? La sfida è con sé stessi, prima che con il pubblico, che forse non applaudirà mai uno spettacolo così complesso, ma non ha importanza. Ci sono cose che devono essere immortalate, a partire dal proprio ego, che sormonta ogni empatia, muove l’invidia verso una moglie realizzata e distante, che non è degna di portare via l’unica figlia avuta insieme, e quando l’ego diventa ira è troppo tardi per rimediare. Tutto finirà nel soggetto, e invece di ferite da curare ci saranno altri attori da scritturare. La sceneggiatura finirà per complicarsi tanto che saranno gli attori stessi a scritturare i loro personaggi realmente esistiti ed esistenti, in una vita che muta e diviene una Scala di Escher, dove tutto gira intorno fino a che i piani vanno a confondersi, e della realtà non rimane che una rappresentazione. Forse più un’illusione, di qualità e di quantità, nella quale credere che la propria vita sia felice, piena di colpi di scena e soggetti stravaganti, oppure credere che sia reale, quando su un palco non lo è, malgrado lo sia più di quella vissuta senza costumisti e scenografi. Dalla contraddizione si coglie il perno sul quale il regista fa andare la sua giostra: correre dietro alle proprie aspirazioni ego alla mano, rischia di tradursi nell’imbastimento di uno spettacolo più surreale che altro, soprattutto quando ci si distacca dai limiti che la realtà e le relazioni con gli altri ci insegnano. Ognuno di noi è una sineddoche, ognuno ne sconterà il peso, e mai potremo trasformare la parte nel tutto, perché mai smetteremo di essere parte di qualcosa che è per definizione più grande di noi. Nemmeno la regia più sapiente abbinata alla più sofisticata delle coreografie sarà in grado di restituire a noi e agli altri quella complessità dolorosamente indispensabile che ogni storia di vita necessita sia scritta, giorno per giorno, sulla nostra esperienza, che per quanto possa assomigliare ad una sceneggiatura dalle mille tinte, dovrà essere vissuta: solo così potrà essere dignitosamente rappresentata.   Tommaso Sabbatini

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