L’8 ottobre 1892 nasce la poetessa Marina Cvetaeva

Bella, ricca (almeno all’inizio) e ribelle, Marina comincia a scrivere poesie a sei anni, a diciassette si trasferisce da sola a Parigi per seguire le lezioni di letteratura francese alla Sorbonne e pubblica la prima raccolta poetica a diciotto. I capelli corti secondo la moda europea, la sigaretta accesa e la passione per la letteratura tedesca − il suo amato Goethe, il suo amato Hölderlin −, ma ancora di più: un’appropriazione inedita e personalissima del russo, la sua lingua madre. Una tale potenza (ri)generativa, voglio credere che abbia trovato la giusta liberazione in questa poesia, fatta di frasi spezzate e riprese ritmicamente, a partire proprio dalle sue origini: il giocare con l’etimo delle parole forse le veniva naturale per merito del padre filologo, oltre che storico dell’arte, e l’attenzione alla loro musicalità senza dubbio le deriva dalla madre pianista («Il mio libro va eseguito come una sonata»), elementi a cui Marina apporterà la propria sensibilità di donna vivente e desiderante; «I versi sono il suo corpo» dice della Cvetaeva Piero Citati.

Non faccio alcuna differenza tra un libro e una persona, un tramonto, un quadro. Tutto ciò che amo, lo amo di un unico amore.    (Il paese dell’anima. Lettere 1925-1941)

Così la ricorda una delle figlie, Ariadna (detta Alja) Efron: «Sapeva raccontare in modo splendido, con la sua voce giovanile e piena. […] Sullo scrittoio poggiava una tazzina di caffè bollente e ci si metteva, ogni mattina che Dio mandava in terra, come un operaio alla macchina. Alla scrittura, la poesia, era capace di posporre qualunque altra cosa. Non amava i fiori recisi; preferiva le piante selvatiche, e gli alberi». Mandel’stam la ritrae invece con queste parole: «Era testarda e bizzarra, ma non solo caratterialmente, anche nell’organizzarsi la vita. Non avrebbe mai accettato di sottomettersi al proprio autocontrollo, come l’Achmatova. Adesso, dopo aver letto i versi e le lettere della Cvetaeva, ho capito che ella cercava dappertutto e in chiunque le delizie e la pienezza dei sentimenti. Questa pienezza le era necessaria non solo in amore, ma anche nella separazione, nell’abbandono, nella disgrazia».
Inquieta, feconda, concretissima, scrive incessantemente, soprattutto ai suoi due grandi amori, mai vissuti: Rainer Maria Rilke e Boris Pasternak. La forza di Marina, che passa tutta attraverso le appassionate parole che riversa come fiume in questa corrispondenza, coinvolge e rischiara e accompagna i due grandi autori, l’uno − Rilke − malato di leucemia, per soli sei mesi; l’altro, alla fine, si deciderà per l’incontro:  è il 1935, a Parigi, ma è davvero troppo tardi, sono passati dieci anni ormai, dieci anni in cui l’amore a lungo nutrito di sole (come se fosse poco!) parole  non è in grado di reggere con la realtà post rivoluzionaria.
La Cvetaeva era infatti una donna forte e altera, un’artista appassionata e innovativa, consacrata a dar voce a se stessa, ma sola e isolata a causa del regime stalinista, che mal vedeva questa poesia intimistica e individuale, oltre che le diffidenze politiche − al contrario del marito e della figlia Alja, che appoggiarono il partito sovietico. A causa di un eterno peregrinare nell’Ovest europeo, cominciato con il viaggio verso Berlino, poi Praga e poi di nuovo Parigi, dove si stabilì, Marina conobbe la miseria, quella vera, quella che ha a che fare con quartieri fatti di sporcizia e il non potersi comprare un paio di scarpe, né saldare i conti con il lattaio, né pulirsi per bene le dita che hanno tenuto la scopa durante le ore da serva prima di rimettersi al tavolo a scrivere.  Muore suicida a 49 anni, esule in Tataria per sfuggire all’invasione nazista e abbandonata dal figlio Mur, l’unico rimasto in vita, che non si presentò nemmeno ai funerali; il suo epitaffio, pensato a soli 20 anni, recita:  «Con leggerezza pensami, / con leggerezza dimenticami».

Propongo qui in traduzione, per ricordarla e assaporarla nel giorno del suo compleanno, due poesie e un estratto dalle sue lettere.

 

Superficialità! – Caro peccato,
Compagna mia e nemica mia carissima!
Tu versasti il sorriso nei miei occhi,
E la mazurka in tutte le mie vene.
Da te ho imparato a non tener l’anello,
Non m’avrebbe la vita presa in sposa!
A cominciare a caso, dalla fine,
E a finire però sempre daccapo.
A essere fuscello, e essere acciaio,
In questa vita, in cui si può sì poco…
A scioglier la tristezza con la cioccolata,
E a sorridere in viso a chiunque passa!
3 marzo 1915

*

 

Piena essenzialità.
Spontaneità. Stasi.
La scala è sempre scala,
l’ora è sempre ora (notturna).
Scivola lungo i muri
la presenza. Ha il respiro
di un giardino, muove
un passo verso di me –
verso la piena divinità
della notte, verso l’altezza
del cielo (con un fruscio
di foglie, di flutti sotto il ponte…).
Verso la piena inconoscibilità
dell’ora e del luogo.
Verso la piena invisibilità
persino della tenebra
(notte atra più atra
del nero più nero!
Basta carminio, basta
cinabro dell’iride:
è colato con la retina
il belletto del mondo!
Più non imbratto –
con la bellezza – l’occhio).
Un sogno? Nel migliore dei casi:
un suono. In lui? Sotto di lui?
Stupirsi? Ascolto meglio:
un noi! Ma il passo è uno solo!
Non in coppia, concordi –
ma orfanezza di due.
Separati i nostri
passi – il mio ancora non è
spirito (non sono buchi
quelli, ma vergogna. Richiudi!)
È necessario livellare
la tua altezza di una spanna:
scendi la tua potenza
agli altri intelletti!
O non mi potrai sentire:
più non risuono.
Piena rimabilità.
Ritmo (ora sì) mio!
Come Colombo saluta
la nuova India, io—
l’aria. Dimentica
le certezze comuni!
Qui il terreno ha una rendita
superiore, come il petto
di una madre calpestata
dallo stivale militare
(una madre — dai piedini
del suo bambino…)
Un passo —
sul sodo. Contro ogni aspettativa:
il percorso
non è affatto
accomodante. Attrito
della sfera, come in un campo
di segala, come in una risa-
ia — ti risalgo, Cina!
Simile al mare contrario
(contrario —sta per:
congeniale!), al flusso
della folla. — Fatica d’Ercole!
— gravità terrestre.
L’aria prima è spessa.
Io sogno te o tu sogni me?
Questione essenziale per canuti
professori. Sento meglio:
un
noi! Ma il respiro è uno solo!
Non in coppia, accorpati —
ma asfissia di due,
respiro di solitaria
cella: non è ancora gonfio
il Dnepr? Il musico ebreo
si dispera:« ma Lui è sordo?»
È necessario regolare
il tuo respiro al mio
a tutti gli esistenti
(timorosa te lo chiedo).
O non mi potrai liberare:
più non respiro.

[estratto dal Poema dell’aria]

*

A lungo, a lungo,- fin dall’infanzia, fin da quando ho ricordo di me stessa,-mi è sembrato di voler essere amata. Adesso io so che non mi serve l’amore, mi serve la comprensione.. E quello che Voi chiamate amore ( gelosia, sacrificio) tenetelo in serbo per gli altri…  Io posso amare sola la persona che in una giornata di primavera a me preferirà una betulla.
Non dimenticherò mai comi mi abbia fatto infuriare, questa primavera, un poeta, una creatura incantevole, che, camminando insieme con me per il Cremlino,senza guardare la Moscova e le cattedrali, mi parlava incessantemente di me. Io gli ho detto: Come potete non capire che il cielo è mille volte più grande di me, come potete pensare che in una simile gionata io possa pensare al vostro amore. Io voglio invece leggerezza,libertà, comprensione- non trattenere nessuno,e che nessuno mi trattenga. Tutta la mia vita è una storia d’amore con la mia anima, con la città in cui vivo, con l’albero al bordo della strada, -con l’aria.
E sono infinitamente felice.

[Il paese dell’anima. Lettere 1925-1941]

 

 

Regina Spektor, cantautrice e pianista russa, con in mano un libro della Cvetaeva. https://play.spotify.com/track/4fbHQuPWhUTcAS7vGMHQ1j

Regina Spektor, cantautrice e pianista russa, con in mano un libro della Cvetaeva. Ecco qui un pezzo che mi ricorda particolarmente la nostra poetessa: The Flowers

 

 

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